di Mauro Meschini – Arriva in Casentino, nel Palazzo Giorgi di Poppi, «Schiavi di Hitler» una mostra che presenta racconti, disegni, documenti legati alle vicende tragiche vissute dai deportati italiani in Germania dal 1943 al 1945. la mostra è stata realizzata e viene proposta dal «Centro Studi Schiavi di Hitler», che ha la sua sede a Cernobbio e che ormai da più di venti anni si occupa di questo tema.
Abbiamo avuto la possibilità di incontrare il Prof. Valter Merazzi, presidente del Centro Studi, e Maura Sala ricercatrice; sono loro che hanno curato la realizzazione della mostra e, soprattutto, sono loro che da anni si dedicano completamente a quella che, nei fatti, è diventata una missione, un impegno costante di studio e ricerca. L’incontro è stato interessante e tante le informazioni raccolte, speriamo davvero di riuscire a proporvi una sintesi, sicuramente insufficiente, ma capace di stimolare interesse e curiosità per un periodo del nostro passato che merita attenzione anche perché, ancora oggi, quello che è accaduto negli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale, provoca conseguenze sul presente.
Intanto «Schiavi di Hitler» è anche il titolo di un libro (Mondadori, 1995) di Lazzero Ricciotti, giornalista e storico, che nel 1999 era presidente dell’Istituto di Storia della Resistenza di Como, ente nel quale il Prof. Merazzi era direttore. L’attività dell’Istituto è stata in quel periodo influenzata dalla possibilità che in Germania si approvasse una legge per il risarcimento dei lavori forzati a cui il Terzo Reich aveva costretto milioni di uomini e donne. Si trattava di un fatto che restituiva centralità, anche in Italia, ad una pagina della storia del nostro Paese spesso messa in secondo piano. Non si trattava della guerra di Liberazione combattuta sul territorio italiano e, d’altra parte, neppure della Shoah che portò alla morte milioni di ebrei, si trattava della deportazione di altri milioni di persone.
Per fare alcuni riferimenti storici possiamo ricordare che per l’Italia tutto è iniziato l’8 settembre del 1943, data tragica, segnata dalla disfatta dell’esercito lasciato al suo destino dal Re e dal governo. In quel momento sui vari fronti si trovavano circa 2.000.000 di soldati italiani, di questi 1.000.000 circa fu catturato e 700/750mila furono deportati in Germania. Dopo lunghi e disastrosi viaggi giungevano nei campi di prigionia tedeschi rappresentando in gran parte l’ultimo atto di una serie di deportazioni da vari paesi europei che avevano coinvolto circa 12.000.000 di persone. Gli italiani però non erano come gli altri, non erano riconosciuti come prigionieri di guerra perché formalmente nessuno aveva dichiarato guerra alla Germania. Sono quindi IMI (Internati MIlitari) e dovranno affrontare incredibili sofferenze nel primo inverno che porterà alla morte molti di loro.
Quei mesi sono duri anche per la diffidenza reciproca che divideva tedeschi e italiani, i primi consideravano i nostri soldati traditori, ma d’altra parte quest’ultimi avevano potuto vedere direttamente cosa significasse combattere a fianco dei nazisti e, soprattutto, ricordavano bene cosa era successo in Russia quando durante la ritirata l’esercito tedesco aveva abbandonato al loro destino decine di migliaia di italiani.
La possibilità di sopravvivere nei campi era dovuta al luogo di prigionia e al lavoro che eri costretto a fare. Un lavoro forzato svolto da uomini considerati a tutti gli effetti oggetti, qualcosa di cui disporre liberamente, infatti le aziende tedesche in cerca di mano d’opera potevano richiederla, per il tempo e nei modi di cui necessitavano, dietro il pagamento di una determinata cifra all’esercito tedesco.
Questo lavoro rubato, svolto per le aziende tedesche, è quello che si chiede alle soglie degli anni 2000 di risarcire. Per l’Italia ciò che deve essere riconosciuto è in gran parte il lavoro dei soldati deportati dopo l’8 settembre, a cui poi si sono aggiunte circa altre 100.000 persone rastrellate durante il periodo dell’occupazione in Italia.
Ma c’è un altro elemento importante che, nel nostro incontro, il Prof. Valter Merazzi e Maura Sala hanno voluto sottolineare e che non dovrebbe mai essere dimenticato. Quelle centinaia di migliaia di uomini, nella loro condizione di prigionieri costretti ai lavori forzati, hanno rappresentato «l’altra Resistenza» nei confronti dell’invasione nazista. Sono stati infatti loro che, pur conoscendo già quello a cui sarebbero andati incontro rimanendo nei campi, rifiutarono di arruolarsi nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana, l’ultima carta che Mussolini tentò di giocare quando ormai era totalmente nelle mani del Fuhrer. Se avessero fatto una scelta diversa non possiamo davvero pensare quale sarebbe potuto essere il futuro della guerra, dell’Italia, ma anche dell’intera Europa.
La consapevolezza del ruolo che questo «esercito» ha avuto per le sorti del conflitto avrebbe dovuto portare a decisioni diverse anche rispetto alle tante cause e ai giudizi aperti, ormai a tanti anni di distanza, sui risarcimenti. In questi lunghi anni, partendo dall’Istituto di Storia della Resistenza di Como e poi sempre più strutturando il Centro Studi «Schiavi di Hitler», è stata svolta dai nostri interlocutori una preziosa e attenta attività di ricerca, consulenza, studio, informazione che ha permesso di raccogliere, tra l’altro un enorme patrimonio di notizie e testimonianze.
Mentre già da tempo era attiva questa raccolta di storie di deportati, fu organizzato, nel giugno del 2000, un convegno che riuscì a coinvolgere in Italia molte associazioni e a permettere la formazione di un coordinamento nazionale, finanziato dallo Stato, che avrebbe dovuto aiutare la fase di ricerca e raccolta delle informazioni.
Poco dopo, nell’agosto del 2000, fu approvata in Germania la legge che per la prima volta sanciva il diritto al riconoscimento per il lavoro forzato e nacque la Fondazione «Memoria, Responsabilità e Futuro». Erano state negli anni precedenti le iniziative prese da alcune organizzazione ebraiche negli Stati Uniti contro banche e assicurazioni, per il recupero dei beni sottratti durante la guerra, e contro le industrie tedesche, per lo sfruttamento lavorativo, a portare in rilievo la questione. Nonostante la legge, la cifra messa a disposizione dal governo tedesco e dalle aziende responsabili dello sfruttamento degli schiavi, risultava insufficiente, inoltre altri requisiti erano richiesti per avere il risarcimento, tra qusesti essere ancora in vita alla data del 16 febbraio 1999.
Inoltre nell’agosto del 2001 una perizia di parte commissionata dal governo tedesco al Prof. Tomuschat parificò gli Internati MIlitari italiani (IMI) ai prigionieri di guerra escludendoli dal risarcimento. Ma proprio un accordo del 1944 tra Hitler e Mussolini aveva imposto ai militari italiani lo status di «lavoratori civili». Questo già allora li aveva subito sottratti dalla tutela della Convenzione di Ginevra, dall’assistenza della Croce Rossa e dal divieto di lavorare nelle fabbriche di armi. In pratica i deportati italiani si trovano così a subire una nuova ingiustizia. Le domande presentate dagli italiani sono state circa 130.000, ma solo poche migliaia hanno ottenuto l’indennizzo.
Nel 2006 la Germania, dopo un accordo con l’Italia, stanzia 5 milioni di euro, per la maggior parte utilizzati per enti e luoghi legati alla tutela e valorizzazione della Memoria. In tutto questo periodo non ci sono mai state decise prese di posizione dei governi italiani. Nel 2022 viene poi previsto lo stanziamento di 55 milioni di euro per sanare le varie cause che intanto nel corso degli anni sono state avviate. Sono risorse del PNRR, quindi reperite anche grazie alle tasse degli italiani e degli europei, naturalmente è giusto dare un riconoscimnto a chi cerca giustizia e chiudere queste situazioni, ma certo altri avrebbero dovuto essere chiamati a rendere conto.
Queste risorse, erogate in tre anni, sono finalizzate a sanare le cause già vinte, ma anche per permettere di aprirne di nuove, solo se tassativamente avviate prima del 23 giugno 2023. In questa situazione tutt’altro che conclusa da ricordare l’istituzione della Medaglia d’Onore concessa «… ai cittadini italiani, militari e civili, deportati ed internati nei lager nazisti e destinati al lavoro coatto per l’economia di guerra nell’ultimo conflitto mondiale, che abbiano titolo per presentare l’istanza di riconoscimento dello status di lavoratore coatto, nonché ai familiari dei deceduti».
È un riconoscimento nominativo che può essere richiesto alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e il modulo da utilizzare è disponibile sul sito del Centro Studi «Schiavi di Hitler», che può dare aiuto e consulenza per presentare la domanda. La medaglia viene in genere consegnata il 27 gennaio, «Giornata della Memoria», o il 2 giugno dai prefetti dei capoluoghi di Provincia.
A proposito del «Giorno della Memoria» da ricordare che la Legge che lo istituisce vuole anche ricordare «… gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte…». Sarebbe quindi importante ricordare quei soldati, soprattutto appartenenti alla truppa, che furono loro malgrado protagonisti di un periodo cruciale per il nostro Paese, ma che sono stati dimenticati dopo il loro ritorno. Ricordarli anche in Casentino perché scorrendo alcuni elenchi di deportati e vittime dei lager spesso ci accorgiamo che alcuni sono nati nella nostra vallata.
Nel numero di CASENTINO2000 di aprile 2023 abbiamo raccontato la storia di Angiolo Brezzi di Bibbiena, morto il 24 febbraio 1945 nel campo di Kahla in Germania. Più conosciuta la storia di Luigi Ferrini, il primo ad avviare una causa già nel 1996, assistito dall’avvocato tedesco, Joachim Lau, che dalla fine degli Anni ‘70 si è stabilito in Casentino oltre ad aprire uno studio legale a Firenze.
Oltre alle loro ci sono altre storie da ricordare e ancora giustizia da affermare; il lavoro fatto dal Centro Studi «Schiavi di Hitler» e la mostra che è possibile visitare fino al 7 gennaio a Poppi, offrono un’ottima occasione per conoscere «l’altra Resistenza».