Quando non esistevano i social network – siamo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta del secolo scorso – spettava ai radio e telecronisti il compito di diffondere le notizie: “Ha segnato Gigi Riva, goal di Riva con un sinistro imparabile alla destra del portiere avversario”.
Pensate a Gigi Riva, o a Fabrizio De André; parlavano poco, giusto l’indispensabile, eppure comunicavano con il mondo attraverso un campo di calcio o un palcoscenico. Chi scrive non è un luddista tecnologico; stiamo sui social “come d’autunno sugli alberi le foglie” ma non vogliamo attentare alla Rete, piuttosto provare a riflettere sulla crisi della condivisione, perché comunicare – in senso proprio – significa innanzitutto interagire, mettere in contatto, diffondere.
La piazza virtuale, un immenso contenitore pericolosamente tendente al vuoto, ha spazzato via, almeno a partire dagli ultimi vent’anni, ciò che restava della partecipazione attiva alla vita pubblica. Prima gli italiani si lanciavano sanpietrini aggrovigliandosi in una lotta fratricida tra il vecchio e il nuovo; politici degni di tal nome si confrontavano aspramente su temi concreti, declinando visioni del mondo del mondo talvolta contrapposte, ma c’era comunque un senso.
Sfogliate il libro di Garanzini, “MI CHIAMAVANO ROMBO DI TUONO”, dedicato appunto alla vita di Riva, e vi accorgerete, semplicemente osservando la foto del campione con la divisa bianca del Cagliari, che per comunicare serve in primo luogo una grande storia da raccontare: “…andar via voleva dire tradire questa gente che mi aveva dato tanto, per non dire tutto. E che nei momenti in cui le voci sulla mia cessione si infittivano scendeva in piazza per impedire alla società di cedermi, e sembrava disposta a buttarsi nel fuoco per me. O meglio. A buttarsi nel fuoco per il Cagliari con me”.
Lontano dai riflettori pur essendo sempre al centro dell’Italia e poi del mondo; lo storico scudetto in Sardegna, Italia-Germania 4 a 3 e poi tutti immobili ad osservare Pelè che vola più in alto di tutti, verso il cielo, nella finale dei mondiali in Messico del 1970. Una gamba che fa crac, il tunnel oscuro della depressione ed eccoci qua, nel 2022, a raccontare la storia di un bambino che da un orfanotrofio è cresciuto fino a diventare – secondo la definizione di Brera – un hombre vertical. Epica omerica: Riva esce di scena a poco più di trent’anni – è il nostro Ettore, il soccombente più bello della storia della letteratura – ma non finirà mai di essere raccontato.
Ora sfogliate qualche quotidiano e concentratevi sulla cronaca locale; vi imbatterete in amenità, morbide veline a cura di qualche MINCULPOP attento a non disturbare il manovratore. Ci sono i molti Achille che tagliano nastri all’insegna del “piccolo è bello” ma manca Ettore e, in molti casi, l’etica professionale per provare a raccontare anche ciò che non ci convince e non ci piace.
Si possono raccontare grandi storie attraverso selfie, quadretti di vita familiare e opinioni non richieste in perenne ricerca di followers? Eppure tutti comunicano, condividendo gioie e dolori con i soliti tre o quattro commentatori seriali. Muore qualcuno e…RIP. Peggio ancora quelli che scrivono: “Che cosa è successo?”
Proviamo a raccontare questo: una palla, un campo da calcio con il manto in non perfette condizioni e una radiolina che gracchia. In sottofondo l’inconfondibile rumore del tifo, l’ansia e l’attesa, quelle autentiche. Riva che parla poco, che rifiuta la corte dei potenti perché nel profondo della Sardegna, lontano dai bagliori del Nord Italia, ha trovato un senso. C’è un popolo – un popolo che si fa terra – che vuol comunicare la propria presenza e rompere le catene della subalternità.
Cagliari come Troia: “Il gol per me era tutto…mi dava una scarica nervosa incontrollabile, e poi per quella settimana ero tranquillo”. Rombo di Tuono: a volte il silenzio vale più di mille parole.
ALFABETO CASENTINESE del Barone Rampante