di Marco Roselli – Era la fine di gennaio quando ancora andavo in giro per lavoro senza alcuna idea di ciò che stava per accadere. Tornando a casa, la sera, ascoltavo i notiziari che parlavano di un virus in zone lontane dove non sono mai stato e di cui avevo nozione solamente dai libri di geografia. Poi è arrivato febbraio e questo virus è arrivato in Italia, ma ancora non lo vedevo. Talvolta ne parlavo con qualche amico ma, alla fine del giorno, lo derubricavo come una faccenda che non rientrava tra le priorità. La malattia ha cominciato a scendere di latitudine ma sembrava lontana dal Casentino, almeno così volevo credere. Poi, verso la fine del mese, le cose hanno iniziato a cambiare, per mutare in modo drastico ai primi di marzo.
Accade qualcosa alle scuole elementari dove va tuo figlio. Una maestra è positiva. Di colpo tutto si stravolge. Ti ritrovi ad avere a che fare con qualcosa di sconosciuto, che non ti aveva mai riguardato, perché lontana nello spazio e nel tempo, fino a poche ore prima. Adesso quella “cosa lontana” sta per bussare alla porta nelle sembianze di una ordinanza del Comune in cui si impone la quarantena per tuo figlio.
La prima sensazione è quella dello smarrimento; poi, da quel preciso istante, il cielo si riempie di nubi color della pece. Un tunnel dello stesso colore prende forma eliminando, con un foglio di carta, ogni futilità. Tutte le “necessità” e le voglie che servono a noi occidentali per alleviare la mente dalle nostre deboli pene quotidiane sono spazzate via.Adesso c’è il tunnel. Io, un altro tunnel lo avevo già attraversato e pensavo di avere già dato, ma si vede che non doveva essere. Ne dovevo provare un altro. Il guaio è che in certi tunnel non sei mai da solo. I tunnel, quelli bui per davvero, sono popolati di fantasmi. Gli spettri, in questo caso, si chiamano “contagio”, “malattia”, “morbo”, “polmonite”. Sono come degli abilissimi sarti che ti cuciono addosso un vestito chiamato “angoscia”.
Si tratta di stilisti affermati che lavorano soprattutto la sera. Durante il giorno, in effetti, riesci a nasconderti. In un libro, nel lavoro, alla tv, in un paesaggio qualsiasi o sui social. Ma quando il mondo si spegne, “loro”, hanno ricucito tutto. Poi inizia la notte. E la notte, da sempre, vuole il suo tributo. Da quando eravamo scimmie, animali predabili. Nella preistoria non pensavamo ai virus ma alle tigri con i denti a sciabola. Il tuo predatore di adesso non è un felino o un orso, ma l’ignoto. Ciò che non si conosce e comunque non si può dare per scontato come una comune influenza.
“Che succederà stanotte?” Ecco che un colpo di tosse – uno solo – ti fa alzare dalla tua veglia armata. Al massimo, un malsano dormi veglia. Stressante, snervante, amaro, fragile, misero, insufficiente. Scendi in camera e gli passi una mano sulla fronte mentre è nel profondo sonno. “E’ fresca, mi pare” pensi. Esci piano. Ma poi torni indietro, perché qualcosa ti suggerisce che forse non hai sentito bene. “Forse non era così fresca.”
Allora arrivi al mattino con tre misurazioni passive per notte. Finalmente, verso la profondità delle tenebre, ti addormenti per svegliarti con le prime luci. Passano le ore e tutto muta di nuovo. Ordinanze, chiusure, restrizioni, ferie forzate. Poi i notiziari. Guardi fuori dalla finestra e il mondo sembra essere diventato il negativo di una fotografia. Le cose hanno perduto la loro nitidezza, sono diventate opache. Il tempo scorre lento, lentissimo, e sembra smarrito pure lui. Poi arrivano i numeri, le statistiche. Spettri diurni si aggiungono a quelli della notte. Allora la mente si ingegna cercando di scoprire quello che non c’è. Vorrebbe riportare quegli spettri dall’altra parte del mondo ma non può. Alienare quello che sa, alienarsi da se stessa.
Passa un giorno in cui sei solamente sceso a prendere legna. Ci sei andato senza vedere nulla. Un’altra notte si avvicina. Rieccoli. Ti senti accerchiato. Vecchie tentazioni medicinali riaffiorano. Cerchi di gestire anche quelle perché conosci il rovescio della medaglia. Sai che presentano un conto il mattino dopo. Ma non sai come tenerle a bada. Entri nel buio.
Prendi un libro ma, in breve, ti rendi conto che non stai seguendo la storia. Allora dai la colpa a quella e ne prendi un altro; poi un altro ancora. Tutti uguali. Ti fanno l’effetto dei vecchi elenchi del telefono. La televisione è diventata una poltiglia di immagini e suoni, pezzetti di frasi, mozziconi di parole. Guardi fb. Numeri e statistiche. Titoli di giornali. Post. Frughi per trovare quello giusto, quello che dice ciò che non può esistere, che il mostro è svanito, che si è trattato di uno sbaglio, che era solo un incubo. Allora scrivi qualcosa per condividere. Cerchi di darti un tono, di non essere banale, di affermare delle verità.
Poi da capo. E ancora. E ancora. E poi ancora. Fino a sfinirti. E lo fai ben sapendo che si tratta solo di un rito. Un esorcismo inefficace, perché il demone da scacciare è forte e si è impossessato quasi totalmente di te. Quasi, appunto. Dovresti lavorare su quel “quasi” ma ancora non lo intuisci. Viene un altro giorno. Notiziari. Post.
Sorgono altri spettri. Allora, prima di concederti il lusso di scendere a prender legna ti infili in tasca lo Scottex, sul quale hai spruzzato l’alcol. Quando rifai il percorso inverso strofini tutto dietro di te. Le maniglie del portone e pure il legno. Il corrimano delle scale. La maniglia della porta di casa e le chiavi appese. Posi le casse e vai a lavarti le mani. E strofini, strofini, strofini, fino a vedere le ossa. Fuori dal bagno ripassi il mobilio con l’alcol.
Quando si sveglia guardi tuo figlio che gioca. Lo abbracci poggiando la guancia sulla sua fronte in modo da dissimulare, per non trasferire la tua ansia. Ma poi accade che in capo a mezza giornata lo fai quattro volte e lui se ne accorge. Dio santo. Come si trova il modo giusto? E non rifletti, perché ancora sei annebbiato, che sarebbe meglio parlare chiaro, perché tanto lui sa tutto. Viene il pomeriggio e da fuori arriva un silenzio primordiale. Guardi l’orizzonte e pensi che là fuori, da qualche parte, c’è un mostro. Lo cerchi tra i tigli del viale, vicino al marciapiede, sui tetti, giù per le grondaie, sull’asfalto, ovunque. Come se potessi vederlo, quel mostro maledetto!
Il sole tramonta. A tavola mangi poco o nulla. In compenso bevi più vino che acqua. Molto più vino. Tenti nuovamente i riti propiziatori, con lo stesso esito della sera precedente. L’unica cosa che annoti è che certi programmi televisivi sono da evitare. Tanto meno in quelli trovi le risposte che cerchi. In effetti non parlano di tuo figlio. Non ti dicono se la sua quarantena andrà bene. Ti interessa solo quello. Infine credi che più notizie hai meno ne hai, perché il virus si insinua nella mente, facendo uscire di senno tutti, specialmente i savi. Le rimembranze scolastiche manzoniane della peste nera si sprecano. Di nuovo controlli la temperatura della sua fronte.
All’una, alle due e alle tre. Ancora un sole. Quella mattina sai che devi andare assolutamente in farmacia. Allora ti prepari per una procedura che non avevi mai fatto in 55 anni. Compili l’autocertificazione, prendi la mascherina e i guanti, poi scendi alla Stazione. Stavolta però, forse perché sei uscito fuori dall’angusto perimetro della casa, ti accorgi che i ciliegi sotto il Fallito stanno sbocciando. Devi prendere i soldi al bancomat delle Poste, che fai diventare lustro con il solito presidio igienico artigianale, tanto da poterci pranzare sopra. Presso la farmacia c’è la fila. Si entra uno alla volta. Distanze di sicurezza, tutti con gli occhi persi nel nulla. Quando stai per risalire in auto vedi un susino fiorito e lo fotografi. Risalendo verso Bibbiena – finalmente – si fanno strada altre considerazioni, cibo buono per il cervello.
Nella mia struttura culturale, per metà naturalistica e per metà romantica, quelle fioriture significano qualcosa. Mi vengono alla mente alcuni meccanismi biologici dei vegetali ed altri decisamente simbolici. Immagino il divenire delle stagioni e le forze in atto, quello che conosciamo e quello che non conosciamo, che forse neppure gli scienziati sanno. Penso a tante cose in un secondo. Ma quando rientro a casa ho una sensazione nuova. Qualcosa mi dice che la marcia verso la luce sarà ancora faticosa e densa di insidie, ma che un giorno non troppo lontano sorgerà finalmente un sole a colori.