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martedì, 22 Ottobre 2024

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Dal Casentino a Gaza per salvare i bambini

di Melissa Frulloni – Purtroppo e per fortuna i telegiornali e la tv main stream non ci fanno vedere che cosa accade realmente a Gaza. Per scoprirlo è necessario seguire profili social di giornalisti palestinesi, impegnati in prima linea a testimoniare l’inferno che vivono ogni giorno, senza filtri, con immagini davvero molto forti che in un attimo ti catapultano nelle strade, tra i palazzi bombardati. Aprono uno spiraglio su vite spezzate, sulla disperazione di chi rimane e guarda, semi impotente, la distruzione della guerra. Foto e video che mostrano una disumanità spiazzante, capace di metterti in crisi, di farti piangere dalla disperazione, mentre guardi il tuo bambino che ride felice, il tuo cane che dorme beato sul divano… Pensi a quei bambini, a quelle mamme che li hanno persi, a quei babbi, ma anche a quei cani, ad ogni essere vivente che in quel posto del mondo soffre immensamente. Un senso di colpa t’invade…

La necessità di fare qualcosa si fa pressante, ma allo stesso tempo fai i conti con la realtà delle cose e ti dici che è difficile salvarli; ti rassegni allora, piangi, soffri per loro, preghi se credi. Per fortuna però c’è chi ha fatto dell’aiutare gli altri una missione di vita; sì, fare il medico è anche questo ed essere impegnati in vario modo per curare chi vive in zone povere del mondo o colpite dalla guerra rientra senza dubbio nel giuramento che ognuno di loro è portato a fare.

Il dottor Francesco Donati, medico del 118 e PS dell’Ospedale di Bibbiena ha recentemente partecipato ad una missione che ha permesso di portare in Italia 16 bambini palestinesi di Gaza con patologie croniche e con ferite provocate dai bombardamenti. Sono arrivati nel nostro Paese con le loro famiglie (36 persone in tutto) anche se, come ci spiega il dottore: “si trattava di famiglie distrutte dalla guerra; c’era chi aveva perso la mamma, il babbo, un fratello, un cugino… Ognuna di quelle persone aveva subito un lutto…

I bambini e le loro famiglie sono stati recuperati all’ospedale italiano “Umberto I” del Cairo, dove erano stati ricoverati. Il dottor Donati ha volato con loro per portarli in Italia insieme a due infermieri del 118, Antoine Belperio di Arezzo e Michele Cerretani di Grosseto, i volontari di Anpas, Misericordia e Croce Rossa Toscana, oltre alla coordinatrice infermieristica del 118 della ASL Toscana Nord Ovest, Monica La Vita e una delle due mediatrici culturali, Fatima EL Mohajir della Misericordia del Galluzzo (Firenze).

Insieme hanno aderito ad una missione MEDEVAC (MEDical EVACuation) che punta a portare via da scenari di guerra o da zone colpite da disastri e calamità naturali persone che in quei luoghi non potrebbero essere curate in maniera adeguata. La missione è stata promossa dalla Cross di Torino (Centrale Remota Operazioni Soccorso Sanitario) e dalla Regione Toscana e ha visto il coinvolgimento degli operatori sanitari delle tre ASL toscane e del Meyer, dove, una volta arrivati in Italia, sono stati trasferiti quattro bambini. Gli altri dodici sono andati negli ospedali di Torino, Milano, Bergamo, Bologna, Ancona, Trieste, Terni e Perugia.

I sanitari che hanno aderito alla missione hanno raccolto l’invito ad esserci, arrivato dalla Cross di Pistoia che opera dalla città toscana; si tratta di una delle due strutture presenti in Italia (l’altra è appunto a Torino). La missione è durata due giorni e si è svolta il 7 e l’8 agosto scorsi, con atterraggio dei bambini e di tutta l’equipe medica e dei volontari a Bologna. A più di un mese di distanza da questa esperienza abbiamo incontrato il dottor Donati per farci raccontare come è stata questa avventura e soprattutto che cosa ha significato per lui e per gli altri partecipanti a livello professionale, personale ed emotivo. “Sì, credo che definirla avventura sia veramente corretto!” Ci ha detto.

Dottore ce ne parli. «Le missioni MEDEVAC sono molto frequenti in Europa; per quanto riguarda invece il nostro Paese, l’Italia ha iniziato da poco ad interessarsene ed a occuparsene dal punto di vista organizzativo. Quella a cui ho partecipato invece, è stata la prima della Regione Toscana, organizzata dalla Protezione Civile e dal Governo Italiano. L’operazione è stata condotta dall’Aeronautica Militare di Pisa, con il supporto dei medici toscani e dei sanitari del 118. Ci era stato richiesto, un po’ di tempo fa, di aderire al progetto, dando una disponibilità di massima a partecipare a missioni di questo tipo, ma, sinceramente, non credevo che mi avrebbero mai chiamato. Invece qualche settimana prima di partire ho ricevuto la chiamata e l’informativa che mi spiegava alcuni dettagli della missione, anche se, fino alla fine, molti particolari non ci sono stati rivelati, un po’ per privacy, un po’ per la situazione molto delicata, ma anche a causa dello scenario internazionale che capite bene, cambia spesso e molto velocemente. Abbiamo saputo che il Governo Egiziano avrebbe messo a disposizione un corridoio aereo per il 7 e l’8 agosto scorsi e che quindi saremmo potuti partire per la nostra missione. La preparazione che serve per partecipare è quella base di medico di emergenza, ma per l’operazione siamo stati preparati anche con apposite call, organizzate dal Cross di Pistoia che ha fatto da regista per tutti gli aspetti organizzativi e decisionali. Gli incontri servivano soprattutto per capire come approcciarsi alla situazione, ai pazienti, non solo dal punto di vista medico, ma anche umano ed emotivo.»

Che problemi o patologie hanno i bambini che avete portato in Italia? «Purtroppo sono tutti vittime della guerra; presentavano ustioni, fratture, causate dai bombardamenti, mentre alcuni erano affetti da gravi malattie congenite, difficilmente curabili nel loro territorio di provenienza. I 16 bambini sono stati selezionati dal Governo Egiziano e una volta arrivati all’ospedale italiano del Cairo sono stati visitati dal Dottor Simone Pancani, Dirigente medico presso la AOU Meyer di Firenze, che è stato incaricato di preparare tutte le cartelle cliniche dei pazienti in modo da metterci al corrente dell’anamnesi di ognuno e della storia che li aveva portati fino a lì. Ci ha preparato il campo e spianato la strada, facendo un grande lavoro di raccolta dati e informazioni su ognuno. Una volta atterrati a Bologna, i pazienti, sono stati smistati in vari ospedali italiani, in base anche alle loro patologie e problematiche. Purtroppo il paziente più piccolo, un bimbo di appena 6 mesi, nato prematuro e gravemente cardiopatico, non ce l’ha fatta. Ci ha lasciati mentre era in viaggio per l’ospedale di Milano, dove lo avrebbero sottoposto ad un delicato intervento di cardio chirurgia. La sua situazione era veramente molto complessa e sicuramente il viaggio lo ha compromesso ancora di più… Non siamo riusciti a salvarlo… Questo bimbo si trovava insieme ai casi clinici più complessi sull’aereo C130, dotato di postazioni di emergenza. Io invece sono rientrato con l’Atr della Guardia di Finanza che trasportava pazienti meno gravi; per tutto il viaggio la situazione medica è stata sotto controllo e molto tranquilla.»

È riuscito a parlare con qualcuno dei bambini? Ha potuto conoscerli o conoscere le loro storie e le loro famiglie? «Oltre alla lingua, la difficoltà principale per approcciarsi a queste persone è stato sicuramente il diverso contesto socio-culturale. Gli organizzatori si erano raccomandati di stare molto attenti, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con le donne, di farsi sempre aiutare dalle mediatrici culturali per parlare con i pazienti o con i loro famigliari. Sia io che gli altri sanitari eravamo sinceramente in difficoltà, non sapendo se potevamo tendere una mano per aiutare una mamma a salire a bordo o se potevamo fare una carezza ad un bambino. Quando siamo arrivati in aeroporto al Cairo c’era effettivamente un po’ di diffidenza ad avvicinarsi, ma per fortuna l’atmosfera si è sciolta ed è diventata più informale quando siamo decollati. Sapevamo tutti, sanitari e pazienti, che eravamo lì per aiutare quei bambini e che ogni gesto era fatto senza dubbio in buona fede. Le mediatrici culturali sono state fondamentali, non soltanto per tradurre dall’arabo all’italiano e viceversa (io parlo poco inglese, i pazienti che ho assistito ancora meno…), ma anche per aiutarci ad approcciarci a queste persone; sono state indispensabili per instaurare un confronto con loro. Sono riuscito a parlare con il più grande dei pazienti, un ragazzone di 16 anni che da quanto era alto entrava per poco nella barella… La mamma ci ha raccontato che la loro casa è stata distrutta da un bombardamento in cui, purtroppo, aveva perso l’altro suo figlio, il fratello di questo ragazzo che aveva solo 11 anni… Il paziente che abbiamo portato in Italia subirà un intervento per ricostruire il femore e parte del bacino; aveva fratture multiple provocate dall’esplosione e schegge nell’intestino che, per fortuna, erano state rimosse in un ospedale a Gaza. L’intervento di ortopedia invece doveva essere effettuato altrove, vista la complessità. La speranza è quella che il ragazzo possa tornare a camminare.»

Perché ha deciso di partecipare a questa missione? Cosa l’ha spinta ad andare? «Queste persone fuggono dalla guerra e dalla malattia, vengono in Italia, ma potrebbero andare in qualsiasi altro Paese! L’importante è trovare un posto sicuro in cui rifugiarsi e portare in salvo le proprie famiglie e i propri figli. Di questi bambini mi ha colpito la loro voglia di sorridere e di giocare nonostante tutto quello che hanno visto e che hanno passato; sono pur sempre bambini ed erano molto emozionati di salire in aereo. Molti di loro non solo non avevano mai volato, ma non ne avevano mai visto uno da vicino, se no, purtroppo, quelli che sganciano le bombe sopra alle loro case…

Quando siamo decollati a tutti loro è venuto spontaneo di fare un grande applauso; noi sanitari ci siamo emozionati tantissimo! È stato un momento molto toccante, così come vederli giocare con un palloncino o disegnare con i pennarelli che avevano portato per loro i volontari. Indubbiamente si è trattato di un’esperienza emotiva e personale davvero molto forte, direi più impegnativa da questo punto di vista che dal punto di vista medico. A 60 anni ho deciso di fare questo tipo di esperienza perché ha saputo ricordarmi cosa vuol dire fare il mio lavoro, essere medico. Lavoro al PS dell’Ospedale di Bibbiena e per fortuna non capita di vedere fratture, ferite o ustioni che sono tipiche di zone di guerra. In un pronto soccorso come il nostro entri in una routine di pazienti, in una quotidianità che a volte può farti perdere l’entusiasmo. Partecipare a questa missione ha riacceso molto in me dal punto di vista professionale.

Emotivamente è stata un’esperienza complessa che da un lato ti rende fiero di quello che fai e dell’aiuto che puoi dare, ma dall’altro ti fa sentire impotente, dimostrando che queste azioni sono una goccia nel mare. Reputo, però, queste missioni davvero molto importanti e se riuscissimo a farne diverse, ogni giorno, sicuramente ci permetterebbero di salvare diverse persone, portandole via dai terribili scenari di guerra. Speriamo che il nostro Governo ne faccia sempre di più, come fanno già da tempo molti altri Stati europei.

Sarei veramente felice di partire di nuovo; mi preparerò ancora meglio e saprò come affrontare la missione, visto che ho già partecipato una volta. L’organizzazione è stata impeccabile, ma è ovvio che ci venga richiesta una buona dose di flessibilità, visto che non si sa mai che cosa può succedere e come possa evolvere la situazione.»

È veramente difficile continuare a guardare certe immagini, ascoltare certe notizie… Anche se non siamo noi ad essere partiti in prima persona per questa missione, ci fa stare un po’ meglio che ci siano persone come medici, infermieri e volontari impegnati per fare davvero qualcosa, per provare concretamente a cambiare le cose ed a salvare anche una sola di quelle persone, di quei bambini. Pare di ritrovare un po’ di umanità che in luoghi come Gaza è ormai perduta e questo, per quanto vale, fa davvero bene al cuore.

Nella foto: il gruppo di operatori sanitari che era a bordo dell’Atr della Guardia di Finanza atterrato a Bologna. Dietro da sinistra: Antoine Belperio, Francesco Donati, Michele Cerretani. Davanti da sinistra: Monica La Vita e Fatima EL Mohajir

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