di Denise Pantuso – Il primo a parlare di comfort zone fu il teorico del management Alasdair White che, nel testo Comfort Zone to performance management del 2009, definì la Comfort Zone come la condizione mentale che rende un soggetto capace di agire senza il timore di correre rischi mantenendo costante il livello delle sue prestazioni. Nel dizionario Treccani la parola comfort è entrata a pieno titolo nella lingua italiana e viene fatta derivare dal francese confort indicando quindi agio e comodità.
Comfort zone inizia ad essere intercambiata con Friendzone, termine che rafforza la familiarità del senso di comodità e serenità nello stare in un preciso stato psichico. Come si evince dalle due etimologie la derivazione inglese di Comfort zone punta su una posizione pro-attiva del termine, la derivazione francese, quella realmente presa nel gergo italiano, sottolinea invece la posizione passiva del soggetto. Infatti la confort zone è quello stato di serenità in cui un soggetto tende a stare seppur proprio questo stato di serenità non risulta proattivo alla vita, ovvero non mantiene in piedi nessuna prestazione: lavorativa, generativa, di studio e sociale.
Mi capita sempre più spesso di ascoltare giovani che fanno riferimento alla comfort zone come ad uno stato di inettitudine, di lentezza, di passività nei confronti del proprio essere seppur siano coscienti che proprio questo rende il cammino della vita paludoso e devitalizzante. La comfort zone tra l’altro ha la sua particolarità temporale, ovvero il suo starci è quotidiano. Non c’è un lasciarla per poi ritrovarla, ahimè no, i soggetti vogliono stare lì indisturbati.
Ogni attività o impegno che richieda uno sforzo, un cambio di visione, ogni esperienza che fa vacillare la continuità della comfort zone è rigettata. Capita allora che i giovani non riescano a cambiare la struttura delle giornate, che fatichino a pensarsi al lavoro perché il lavoro, con le sue regole, non permette loro di stare quanto, come e dove vogliono a godere della serenità interiore, della comodità, di quel senso di apparente serenità del vivere.
Non escono con gli amici perché già vedersi, con le sollecitazioni che dà risulta essere difficile, fastidioso, troppo impegnativo. Sembra quasi una forma di alterazione del senso del benessere, dello stare bene. Oggi lo stare bene è senza vita, senza progetti. Stare bene sembra voler dire che non ci si deve sforzare e si deve vivere indisturbati nel proprio mondo.
Trovo invece interessante l’etimologia inglese di comfort zone. La sua sottolineatura sulla “condizione mentale che rende capace agire senza il timore di correre rischi”, mi fa venire in mente come questa sia l’attività del pensare. Pensare infatti significa individuare quelle caratteristiche che mi permettono di agire in conseguenza di un desiderio soggettivo di cui voglio la realizzazione. Pensare è valutare i rischi.
Si può forse intuire che la comfort zone alla francese è un andare di pancia, ovvero faccio ciò che mi sento di fare, la comfort zone all’inglese ci introduce ad uno stato mentale cognitivo ed esistenziale più elaborato e proficuo per il vivere quotidiano.
Dott.ssa Denise Pantuso Psicologa e psicoterapeuta individuo, coppia e famiglia www.denisepantuso.it – tel. 393.4079178
(Rubrica ESSERE L’Equilibrio tra Benessere, Salute e Società)