di Francesca Maggini – Le narrazioni, i racconti sono profondamente legati alle immagini fotografiche che spesso riescono a sostituire le parole evocando, con la loro valenza artistica ed estetica, significati nascosti. Si potrebbe parlare per ore di uno scatto perché in quell’immagine rubata alla realtà può esserci tutto un mondo. La fotografia, dalla sua nascita, ha percorso molta strada e la grande diversità fra ieri e oggi non è tanto e solo nelle tecniche e nelle strumentazioni utilizzate quanto nelle intenzioni con cui l’occhio si pone dietro l’obiettivo. Da puro strumento di riproduzione di immagini, la fotografia è diventata molto di più. Il fotografo quando sta per scattare non pensa solo a ciò che vede ma soprattutto a quello che vuole rappresentare e l’emozione acquista rilievo ancor prima dell’immagine stessa come se quello scatto diventasse un’umana necessità di appropriarsi di qualcosa di inafferrabile. La fotografia piace, entusiasma, emoziona, regala memoria e costituisce nella sua essenza più profonda uno speciale mezzo di comunicazione essendo diventato, oggi, uno strumento unico per documentare sentimenti, culture e realtà sociali. Il legame che si crea, anche senza saperlo, fra il fotografo ed il soggetto ritratto svela, celebra e racconta sensazioni, vite, facendo parlare anche ciò che non parla. Nel nostro incontro con Elisa Mariotti (www.elisamariotti.com IG: @aelisamariotti@_mytruestories_ ), fotografa per passione, c’è tutto questo e molto di più.
Come nasce la tua passione per la fotografia e cosa significa fotografare?
«Se essere fotografo significa lavorare per testate ed essere conosciuto e riconosciuto, no, non sono una fotografa. Ma se significa affrontare la vita con la macchina fotografica sempre a fianco, per raccoglierne l’essenza, spesso attraverso i volti che incontro, per esorcizzarla nei momenti bui, per dare voce a quelle mille storie magiche, a volte dure, ma pur sempre meravigliose che questo mezzo mi ha fatto incontrare, sì, allora sono una fotografa. Ho iniziato ad avvicinarmi alla fotografia da piccola. Tanti pomeriggi della mia adolescenza in camera oscura, ricavata in soffitta, tutto da autodidatta, poi un brusco arresto nel 2001. La fotografia è poi tornata nel 2015 a dare ossigeno ad una parte di me, accantonata per lasciare spazio all’ordine ed al rigore che la mia professione tecnica impone. Qualche piccola, ma enorme, impagabile soddisfazione nel percorso. Convinta che solo se un riconoscimento viene confermato ha senso, continuo questo cammino meraviglioso. Perché si vive come si fotografa e si fotografa come si vive: io lo faccio con un grandangolo, a focale fissa, luminoso».
Come sei venuta in contatto con l’autismo e cosa ha significato fotografare quel mondo?
«Una serie di curve della vita mi ci hanno portata. Tutto parte da MyTrueStories, un progetto fotografico ongoing. Sono ritratti di persone che incontro. Spesso un mio sorriso o una mia domanda aprono una connessione, casuale. Ascolto, a volte anche i silenzi. Scatto. Poi torno a casa e scrivo. Cerco sempre di ringraziare inviando le foto ed i racconti alle persone ritratte. E tutte le volte ho timore di non aver onorato i miei incontri, ma fino ad oggi sono sempre stata smentita in questa paura. A volte rimaniamo in contatto, sempre inserisco scritti e foto in MytrueStories, il mio “librino” rilegato ad anelli apribili. Ho fotografato nello stesso luogo, incontrandoli casualmente a distanza di un anno l’uno dall’altra, marito e moglie, ho ritratto un ragazzo morto reso immortale da un murales fatto dagli amici in una piazza della periferia romana, una suora che ancora forse starà pregando per io possa trovare la Fede, in un treno mentre tornavo da un funerale o una mendicante il cui contatto fisico mi ha scossa alle lacrime oppure un cane in attesa del ritorno del padrone dall’ospedale. Così ho incontrato Carlo e poi Enea. Il primo incontro è stato per me un Prima e Dopo. Ne ricordo esattamente le sensazioni. Ne sono uscita svuotata e allo stesso tempo arricchita. Ma la forte spinta a conoscere e raccontare il mondo dell’autismo è venuta dopo, quando Alessia, mamma di Enea mi ha contattata, invitandomi a percorrere questa strada. Ho incontrato anche Enea. Il progetto fotografico sull’autismo non ha ancora preso forma. Devo trovare chi ha la voglia, la possibilità e il tempo di condividere con me questo percorso. Non è così semplice: l’autismo, come mi ha fatto imparare una persona in cui sono fortunatamente inciampata di nuovo grazie alle mie letture sull’argomento, è anche altro rispetto alla visione romantica che certi libri ci suggeriscono. Ogni cosa a suo tempo».
Come nasce e si sviluppa l’esperienza con Casa Thevenin?
«Di nuovo una strana curva della vita: Niccolò mostra delle mie foto alla sorella, Angelica Tinti, educatrice socio-pedagogica che presta servizio presso la Casa Thevenin. Di qui è iniziata la avventura. Angelica, dotata di spiccato entusiasmo e amore per la propria professione, mi ha proposto di portare la mia fotografia dentro la struttura. Stavo deviando dal mio obbiettivo, l’Autismo, ma non potevo tirarmi indietro. Abbiamo fatto un laboratorio fotografico con i bambini. Il laboratorio avrebbe avuto come scopo quello di far costruire loro un proprio “librino” fotografico, nel quale unire il loro racconto scritto alle immagini che ancora una volta loro stessi avrebbero scelto tra 100 mie immagini. È stato un viaggio meraviglioso. I bambini si sono avvicinati alla fotografia, a piccoli passi, ed hanno avuto un saggio di come questo mezzo possa essere potente. Vederli ridere alla lettura di una sequenza di due immagini o rimanere con la bocca aperta nell’ascoltare la storia di una foto è stata una esperienza impagabile. Io mi sono avvicinata a loro e a me stessa. Ogni librino a modo proprio è risultato essere la cassa di risonanza di sensazioni, timori, fantasie di ognuno dei ragazzi: dalla ricorrente paura di affogare, alla necessità di scappare di casa alla ricerca dei propri desideri, alla analisi delle sensazioni scatenate dalle immagini passando per la storia di un bambino che si sente supereroe perché è stato preso in affido. Storie che mi hanno commossa e che rendono questo percorso degno di essere vissuto. Prima del lockdown avevamo iniziato il secondo laboratorio in cui i ragazzi avrebbero preso confidenza con il mezzo fotografico e fatto un loro personale progetto. Già il primo incontro era stato bellissimo. Chiusi in sette al buio in bagno per un pomeriggio intero a fare rayogrammi (impressioni su carta fotografica di ombre di oggetti). Poi tutto è stato sospeso ma riprenderemo il prima possibile. Intanto due di loro hanno partecipato ad un concorso fotografico… qualche seme sta germogliando! La cosa più bella è cercare di dar loro un mezzo nuovo per esprimersi, per gridare, sussurrare al mondo la propria presenza, i propri bisogni, le proprie emozioni».
Oltre la fotografia: attraverso l’obiettivo comprendi e ti rapporti con mondi “diversi”, cosa significa tutto ciò dal punto di vista umano?
«È quello che cerco, prima inconsapevolmente e poi, pian piano, sempre più consciamente. Sono sempre stata attratta da persone che mi facessero vedere il mondo con occhi diversi dai miei. La fotografia è attualmente il mezzo primario con cui attraverso la vita e le emozioni che contiene. C’è tanto dolore nel mondo ed io, inconsciamente, forse, cerco di trovare bellezza ovunque. La vita è fatta di emozioni ed io ne sono in qualche modo drogata.
Alla fine di qualche incontro ho tremato per ore per scaricare l’adrenalina accumulata. Fotografare è invadere. Ed ogni invasione ha le sue conseguenze. Le persone in fondo si mettono a nudo, per un istante a volte, ma è sufficiente. Si crea un varco, passa dell’energia. Poi il varco si richiude e tu devi fare i conti con quello che è rimasto dalla tua parte, nel bene e nel male. Per me è sempre stato un arricchimento. Forse perché non ho mai visto il dolore vero, chissà. Qualcuno mi ha detto che io racconto sempre mondi “sgangherati”, io non li vedo così. A me riempiono gli occhi. La mia è una visione sicuramente troppo romantica della vita: vallo a spiegare a Nicola che vedo del bello nei suoi 30 metri quadri a Jerusalem dove mi ha portata senza che avessimo scambiato una parola, dove vive, anziano e malato, con la silenziosa compagnia di tante Madonne e un Cristo in croce in una cornice appoggiata alla meno peggio contro una finestra, dopo una vita da musicista. Per me restano mondi meravigliosi quelli che racconto. Forse quella davvero sgangherata sono io, ma va bene così».
Elisa attraverso la fotografia assapora intensamente la vita, alcune sue foto sono state esposte, hanno vinto concorsi a testimonianza di come la passione, quella vera, rende tutto possibile.
(tratto da CASENTINO2000 | n. 320 | Luglio 2020)