Fantasmi Lui si addormentò sul suo seno. Lei non riusciva a prendere sonno.
Avrebbe dovuto essere in pieno rilassamento ma non era così. Diverse schegge trafiggevano il suo cervello rendendolo inquieto.
Alcune di queste le conosceva già, portavano nomi noti. Dubbio. Paura. Rimorso.
Ce ne erano altre che non riusciva a confessare a se stessa. In fondo alla parte più remota della sua anima poi c’era Dio.
Era una donna che aveva ricevuto una educazione religiosa e, per quanto si sentisse laica e moderna, non si era affrancata del tutto da certe distorsioni.
Nel buio della stanza sentì crescere la pesantezza interiore; cominciarono a riemergere le catechesi ed i sermoni, soprattutto quelli che gli avevano ripetuto i genitori.
Le parole pronunciate dal curato durante il corso prematrimoniale rimbalzavano di parete in parete e si sovrapponevano a quelle di sua madre.
La raffigurazione ebraica di un Dio canuto e con la mano alzata gli si parò innanzi, senza che riuscisse a scacciarla.
Non era più in grado di distinguere ciò che era stata certa di sapere fino a poco tempo prima e cioè che il Padre è amore e non giudizio.
Cominciò ad agitarsi ed un profondo senso di malessere iniziò a salire dalle sue gambe fin sulla bocca dello stomaco. Allora si alzò da letto ed andò in bagno per sciacquarsi il viso ma, quando alzò lo sguardo, nello specchio comparvero i volti del marito e dei figli che la scrutavano con aria di forte disappunto.
Si strofinò più volte la faccia, sperando che quando avrebbe tolto l’asciugamano non ci sarebbero stati che i propri occhi.
Restò impressionata dalla vista dei suoi ragazzi.
Il marito, dopo averla guardata, riprese a decorare i soldatini di piombo.
Intanto era scoppiato un temporale.
La pioggia batteva sul tetto con violenza e dato che avevano preso la camera sulla mansarda, il sordo mugghiare della tempesta si udiva amplificato.
Adesso c’erano i suoi genitori.
Madre:
– Ma non pensi a tuo marito, ai bambini? Come hai potuto? Ti pare giusto quello che stai facendo? Dovresti vergognarti!
– Certo che ci penso, ma io lo amo e so che lui mi ama.
Madre:
– Ma cosa c’entra questo – che cosa dici – l’amore lo hai a casa tua! Ti sei sposata in chiesa e resterai dove sei!
– Anche se mio marito non mi ama e forse non mi ha mai amato? Anche se io non provo più nulla per lui? Mi tiene come un soprammobile.
Madre:
– Non sono queste le cose importanti. Tu devi stare in famiglia, hai capito?
Padre:
– Che stai facendo ragazza? Non è così che ti abbiamo educato.
Madre:
– E poi cosa direbbe la gente? E don Tizio che vi ha celebrati? E tutti i nostri amici? Oddio che vergogna! Che vergogna!
– Non ho sposato il prete. E neppure la gente. La vergogna è quella di vivere nell’ipocrisia giorno dopo giorno. No mamma. Io voglio amare ed essere amata.
Padre:
– Io ti voglio bene figlia mia e sono con te. La persona più fortunata di questa terra è quella che trova il vero amore. Fai quello che senti. Vivi la tua vita.
Subito dopo le immagini svanirono così se ne andò in terrazza, al riparo sotto la tettoia. Pensava e ripensava. Poi, come se stesse ancora parlando a persone care, oltre che a se stessa, iniziò un monologo.
“Io amo quest’uomo ma non riesco ad alienarmi dal senso di colpa? Perché, nonostante io creda nell’amore e sappia di essere finalmente me stessa, non riesco a liberarmi dalle scorie della morale?
è possibile che Dio voglia l’infelicità? E ancora perché, anche se io mi sforzo in ogni modo, non posso strappare la sua immagine dal mio cuore? Come mai le prediche del passato e del presente continuano a risuonarmi nella testa benché io sappia che sono solo false verità?”
Quando rientrò in camera lo trovò in una pozza di sudore e restò perplessa; non gli pareva che fosse così caldo. Dormiva profondamente ed era certa che non si fosse svegliato durante la sua assenza.
Il rumore della pioggia tentava di conciliare un sonno che non arrivò mai.
Quando le prime luci si infilarono tra le fessure delle imposte tornò fuori per godersi l’alba.
Aveva quasi smesso di piovere ed il cielo si stava aprendo sulla campagna circostante.
Una spanna di nebbia restava bassa sui coltivi e sulle gore d’acqua che si stavano tingendo di rosa e arancio. Due caprioli, al margine del bosco – maschio e femmina – si sfregavano il naso a vicenda indisturbati. Ad un tratto però alzarono il muso e la videro.
Con un balzo sparirono tra la vegetazione. La donna sorrise invidiando la loro libertà. Durante il viaggio di ritorno fu lei a guidare; lui aveva male alla schiena.
All’inizio, tra fantasmi e dolori, non dialogarono molto, giusto qualche battuta. Verso Siena ricominciò a diluviare. Grosse gocce colpivano il parabrezza e per diversi minuti non si udì altro che il rumore fastidioso del tergicristallo.
Infine riuscì a liberarsi degli spettri che ancora la braccavano e gli chiese come si sentisse.
– Non c’è medicina che possa guarire il mio male tesoro mio.
– Che vuoi significare? Che succede?
– Niente di particolare, era per dire che forse la nostra condizione è quella di una equazione senza soluzione.
– Si. E’una formula irrazionale perché ci amiamo. E l’amore è sempre dalla parte sinistra dell’essere.
– Però qualcuno è stato inquieto stanotte (sorrise).
– Si. è vero. Ho lottato per noi due.
The good wife (prima parte) Una volta a casa abbracciò i figli e salutò il marito. Rinaldo le diede un bacio sulla guancia mentre terminava di dipingere il copricapo di un ufficiale prussiano. I ragazzi si rimisero a giocare con il tablet mentre la donna vuotava la borsa.
– Hai fatto la spesa?
– No, non ho avuto tempo.
– Va bene. Ordineremo una pizza.
Nell’altra dimora la musica suonava diversamente. La moglie aveva il muso e non faceva nulla per nasconderlo.
– Ti sei divertito al mare? Chiese Lucia con una nota di disprezzo.
– Ho lavorato.
Passarono alcuni lunghi, interminabili secondi di silenzio glaciale, poi il tono salì decisamente.
-Ma tu che cazzo credi di fare eh??!! Mi prendi per una mentecatta? Io sono qui a preoccuparmi e tu non sei stato cane di andare oltre i due minuti di ieri mattina!
Restò sorpreso ma non aveva voglia di controbattere anche perché, dentro di sé, sapeva che aveva ragione lei.
– Che ti devo dire. Siamo stati un po’ impegnati e non è che fossi via da una settimana.
– Ma si, certamente, rispose la donna, con una nota ormai divenuta triste.
The good wife (seconda parte) Mentre lui pronunciava quelle parole capì il reale significato dell’invettiva della moglie. Realizzò nitidamente – forse per la prima volta – quanto lei si fosse sentita abbandonata da troppo tempo.
Aveva un’altra persona e questo era un fatto, ma la deriva dei sentimenti era iniziata molto prima e adesso la vita glielo stava urlando in faccia.
La moglie non sapeva se, con chi, e tanto meno come, tuttavia, più della nozione valeva la sensazione.
Oltre la malattia, che certamente alterava gli stati d’animo, lei individuava nella propria interiorità una nota stonata che amplificava inquietudini già germinate.
“Certe cose si sentono” pensava mentre si sfogava.
Paride intanto si era chiuso in bagno. Seduto sulla tazza del cesso con il cellulare in mano, cercava messaggi che non c’erano. Era pensieroso. Nella mente gli rimbombavano le frasi della moglie. Lei. L’altra. La malattia. “Non è una colpa non essere più innamorati no? E’ la modalità con cui si conducono i rapporti” diceva a sé stesso.
Incamminato sopra un davanzale ghiacciato, a più di ottomila metri di altezza, si trovava sopra una cresta sottile che lo separava dallo strapiombo.
Non poteva e non voleva tornare indietro ma sapeva bene quanto fosse pericoloso andare avanti. Certo avrebbe potuto scegliere di chiudere una porta. Il dolore sarebbe stato immenso, ma poi, tutto sarebbe tornato al suo posto. Avrebbe salvato il matrimonio e protetto i bambini rispetto al disagio.
Ma questa era la ragione. E contro l’amore vero la ragione soccombe. Può essere non consumato, ma continua ad ardere come un fuoco inestinguibile dentro chi lo ha conosciuto, creando inferni peggiori della realtà da cui si è fuggiti. E lui voleva seguire quella fiamma che balenava nella notte della decadenza.
Davanti allo specchio dell’altro servizio, con le mani appoggiate sul lavandino, Lucia si guardava gli occhi che raccontavano un viso stressato. “Eccome se si percepiscono certe situazioni”. Questo pensiero continuava a martellarle le meningi ed era come se non fosse più capace di estirparlo.
Quanto le bruciavano dentro le parole che non aveva udito dal marito solo lei lo sapeva. E nonostante non avesse versato una lacrima, il mascara le si era disciolto sulle guance.
Si sentiva come una restauratrice alle prese con un mosaico antico, difficile e malmesso, in cui molti tasselli, dopo essere rimasti al loro posto per un po’ di tempo, si staccavano e cadevano a terra.
Lei li raccoglieva con pazienza e provava a rimetterli nel quadro, ma alcuni non era neppure in grado di ritrovarli. Nel corso degli anni aveva perso buona parte delle proprie virtù, tanto che aveva rinunciato a cercarli, sperando che il tutto meno una parte sarebbe stato sufficiente.
Il cristallo di un’anima bella e pura era pieno di crepe alle quali sarebbe bastata una vibrazione ulteriore per andare in frantumi. Ma sapeva di essere una donna forte e non avrebbe permesso a quelle fessure di allargarsi.
Quella notte moglie e marito non chiusero occhio ma nessuno dei due si accorse dell’insonnia dell’altro, perché si rivolgevano i fondoschiena. Ognuno chiuso nei propri pensieri soffriva in silenzio ed il muro che separava le natiche, poteva solo fare eco al ticchettio della sveglia sul comodino.
I corpi giravano e rigiravano sotto le coltri facendo finta di essere sotto il governo di Morfeo. Lui pensava all’amante. Lei finiva di smaltire la bile e si chiedeva che fine avrebbe fatto il loro matrimonio. Nella sua testa passava di tutto, compresa l’eventualità più estrema. Poi però pensava ai figli e a quell’uomo che le stava accanto. Era pur sempre il loro padre.
Persona profonda e sensibile, premurosa, come molte della sua specie soffriva gli stati ansiosi. Talvolta, dolorosamente, aveva attraversato i territori del panico.
I pensieri, lo stress, l’arrabbiatura, l’avevano angustiata oltre modo e stava già assaporando quella brutta sensazione di spersonalizzazione a lei nota. Cominciava a sentirsi in uno stato di assenza e naufraga rispetto ai riferimento spazio temporali che, durante la genesi di un attacco di panico, svaniscono nel buio della paura.
Avvertiva l’agitazione che cresceva, ma non aveva alcuna intenzione di chiedergli aiuto.
In effetti, lui non aveva mai ben capito come lei si sentisse durante le crisi, perché guardava quasi esclusivamente se stesso.
In ogni modo non voleva dirgli nulla, solo stringere i denti e lottare contro quel mostro. La tachicardia aumentava. Perle di sudore si erano formate sulla fronte. Sentiva il viso avvampare mentre le gambe si erano fatte di marmo. Nell’incapacità di reagire tenne gli occhi serrati fino a quando non cominciò a percepire che il picco delle palpitazioni era passato. I battiti si fecero via, via più regolari e allorché l’adrenalina finì di tormentarla, una scarica di endorfine la riportò verso una relativa tranquillità.
Tuttavia non se la sentiva di affrontare la notte senza una rete di protezione. Allora aprì il cassetto del comodino e con dieci gocce di Xanax si procurò un morbido cuscino che l’avrebbe cullata fino all’indomani. Quando alle 7.00 suonò la sveglia ed aprì gli occhi, la moglie, come ogni mattina, era in piedi da un’ora. Aveva già preparato i vestiti per i ragazzi e sistemato le cartelle vicino alla tavola.
Il fischio della moka trasportò il buon odore di caffè alle narici sparse per la casa contribuendo in modo decisivo a far alzare tutti.
– Buongiorno. Salutò Paride.
– Buongiorno, quanto zucchero? Gli chiese guardandolo in viso con occhi neutri.
– Il solito, due cucchiaini. Grazie.
Gli porse la tazzina mentre lui finiva di allacciarsi le scarpe.
– Vai tu a prendere i ragazzi? Io non penso di farcela, abbiamo molto lavoro in questi giorni, chiudiamo i campionari, chiese la donna.
– Va bene – certamente.
In cinque minuti fece colazione mentre guardava il notiziario che raccontava dell’ennesimo attentato in medio oriente.
– Hai visto che roba anche oggi?
– Si, ho sentito stamattina presto mentre toglievo il bucato. Il secondo.
– Che cosa hai detto? Scusa non ho sentito.
– Niente, niente. Disse Lucia sotto voce.
– Eh? Ah, ok, allora io vado, ciao, ci sentiamo più tardi.
Si sistemò in dieci minuti e dopo aver portato i figli a scuola si diresse al lavoro.
Alle 8.35 timbrò il cartellino ed entrò nel grande capannone. Era operaia presso una fabbrica di confezioni, addetta alla stiratura. Turni da otto ore, roba pesante, ma meno male che ce l’aveva un lavoro.
Non erano certo i tempi in cui avrebbe potuto lamentarsi.
Prima di uscire di casa si era data un’occhiata allo specchio e nonostante le rughe gli sembrassero più profonde del solito, aveva visto ancora una bella donna.
Non rinunciava ad un po’ di maquillage ma leggero.
La facevano sorridere le colleghe che si presentavano con il restauro della cappella Sistina.
Piuttosto si guardava le mani. Erano molto screpolate e faceva fatica a tenerle idratate.
I tessuti che toccava venivano tutti dalla Cina. Poi c’erano il calore delle stiratrici e i composti per distendere bene i capi.
Chimica leggera e apposita ma pur sempre sintetica.
Il capo reparto era uno stronzo.
Indisponente ed arrogante ci aveva provato più di una volta ma dopo tutti quegli anni di esperienza sapeva come prenderlo. Semplicemente lo ignorava, poteva permetterselo.
Solo una volta aveva tentato di allungare una mano ma se ne era accorta e lo aveva fulminato con lo sguardo.
Quando arrivarono le 10.45 fece una pausa. Andò in bagno a darsi una rinfrescata ed a sistemarsi i capelli. Aveva visto che c’era Gianni, quello della manutenzione.
(Fine puntata 16)
Marco Roselli, Gli Amanti di Piazza Tarlati, Fruska