Lo sport preferito dall’uomo – Arbitro vendutooooo!!! Accidenti a te e a chi ti fa arbitrareeee!!!
– Ohhh!!! Quello era fallo!!!
– Passala! Passala al sette! Passala al setteeee!!!! Mannnooooooo…Ma vai a letto vai! Incapace! Oh, allenatore, quello non lo devi far più giocare!!! Hai capito ??!!!
– Scusi, ma perché doveva passarla al sette che era anche marcato?
– Perché è il più forte di tutti!
– Ah si? E chi lo dice?
– Lo dico io! Lo saprò?! E’ il mio figliolo!! Daaaiiiiiiiii!!! Passagliela!! Passateglielaaa!!! Macchè! Non capisce nulla nessuno in questa squadra, sono un branco di mentecatti tranne lui!
– Non le sembra di esagerare? Sono dei ragazzini in fondo.
– Ahò! Ma te che cavolo voi eh?
– Io nulla. Dico solo che devono pensare a divertirsi secondo me, mica siamo in serie A.
– Ma stai zitto! Deve giocare il mio figliolo!
A quelle parole arrivò un altro babbo, altrettanto fanatico:
– Chi dovrebbe giocare? Il sette? Ma levatelo dal campo per favore! Non ci capisce niente!!!
– Oh, stai attento a come parli del mio pupillo, altrimenti buschi anche!
– E chi mi picchia? Te? Ma sparisci mentecatto che ti rivolto come un calzino.
Il trio divenne in breve un quartetto perché una mamma infervorata si scagliò contro tutti gli altri:
– Ma state zitti! Deve giocare il mio perché è il più allenato e lo tiene sempre fuori.
– Signora, se lo tiene fuori squadra ci sarà un motivo, no? Replicò quello che sembrava il più assennato.
– Giocano sempre i soliti! Quelli che conoscono i dirigenti!
Si giocava il derby A.C. Bibbiena – Virtus Archiano Soci, sentitissimo match da sempre acceso da una rivalità che affondava nella storia del calcio locale.
Quella domenica sugli spalti c’erano anche il padre di Stefano e quello di Claudio che militavano nella compagine del capoluogo.
Intanto, mentre le discussioni tra genitori, parenti e affini di ogni ordine e grado proseguivano sulle gradinate con insulti non rendicontabili, in campo c’era stata una giocata dalla difesa e un contropiede che pareva promettente per il Bibbiena.
– Passala! Dai passamela! Gridò Stefano, che si era smarcato egregiamente.
Claudio – palla al piede – aveva saltato un paio di avversari portandosi verso il cerchio di centro campo.
Il lancio verso il compagno sembrava una scelta obbligata perché il centravanti avrebbe avuto una prateria verso la porta del Soci. Ma Claudio ignorò Stefano, incaponendosi nei dribbling e finendo col perdere la sfera.
A quella vista Paride si era alquanto agitato mentre l’altro era restato compassato come se si trovasse in un museo, con l’attenzione rivolta ad un’opera di Rembrandt piuttosto che ad una di Matisse.
L’uomo si era portato anche un catalogo di modellismo tuttavia, ogni tanto applaudiva, magari per una rimessa laterale.
Chi gli stava vicino allora lo guardava storto ma lui non pareva curarsene.
Al triplice fischio la squadra della frazione aveva vinto 0 a 2 e quelli del Bibbiena, calciatori e non, avevano il capo basso anche perché si trattava di una sconfitta meritata.
Comunque la partita era finita e nessuno avrebbe potuto immaginare ciò che si sarebbe scatenato nel giro di cinque minuti.
Appena messo piede negli spogliatoi la mano di Stefano prese i capelli di Claudio tirandoli con forza.
Questi reagì immediatamente, come se si aspettasse l’aggressione sferrando uno schiaffo a mano aperta.
L’impeto li fece cadere a terra dove proseguirono a malmenarsi come delle furie con graffi, calci e offese.
Quando li separarono continuarono a guardarsi con disprezzo incolpandosi anche di ciò che con il calcio non c’entrava.
Volavano frasi pesanti, sproporzionate per dei ragazzini dieci anni, della cui gravità si accorsero perfino gli adulti.
– Ma come cavolo giochi??
– Gioco come giochi te! Vai a piangere dalla mamma che è meglio! Che poi è bene che pianga anche lei, inveì Stefano.
– Lascia stare la mia mamma! E’ il tuo babbaccio! Rispose Claudio avventandosi di nuovo.
A quelle parole tutti strabuzzarono gli occhi intuendo così che non c’entrava la questione del pallone.
Blam!!!
La porta si spalancò di colpo e Paride entrò nella stanza con il cipiglio di chi non le avrebbe mandate a dire.
– Ma voi che cavolo fate?! Vi sembra questo il sistema per far fare dello sport ai ragazzi? Vi dovreste vergognare!
– Stia calmo, sono cose che capitano, rispose il vice allenatore.
– Ma che calmo e calmo! Cosa gli insegnate agli allenamenti? Che esempi gli trasferite?
Nella concitazione del momento, dal brusio in sottofondo, emersero chiaramente queste parole:
– dovresti guardare te che esempio dai a tuo figlio.
– Chi l’ha detto? Cosa vorresti dire!? Dillo in faccia se hai coraggio!
Ma a quel punto era calato il silenzio glaciale e tutti lo guardarono con commiserazione.
Intanto era entrato anche il padre di Claudio che stava zitto sulla soglia. Era rosso come un peperone e quando lui lo guardò non sapeva dove volgere la testa; continuava ad aggiustarsi gli occhiali e ad aprire e chiudere la rivista.
L’altro invece stava per investirlo di improperi ma ebbe un barlume di lucidità, per cui, prese il figlio per un braccio e uscì di scena ancora su di giri.
La sera, a casa, Claudio salì nella mansarda dove il padre teneva le sue collezioni e lo trovò che stava dipingendo. Concentratissimo nella decorazione di Bucefalo, dopo un minuto buono si accorse di lui.
– Perché oggi non hai detto niente Babbo? Perché non mi hai difeso?
– Io, ehm, l’avrei fatto sai? Certamente lo avrei fatto ma ho visto che la cosa si era aggiustata da sola e così ho pensato che era meglio non litigare. Non credi anche tu?
-Ma babbo!!! Ma non capisci???
-Eh? Cosa devo capire?
A quel punto il ragazzino scappò via piangendo.
Nemmeno quella sera era riuscito ad abbracciarlo ed a dirgli che gli voleva bene.
Nemmeno quella sera l’uomo si era dimostrato tale.
Quando riprese a dipingere, il pennello tremava ed anziché ripassare adeguatamente la chioma uscirono un paio di sgorbi che finirono sopra il garrese.
Paonazzo e pieno di sudore ebbe uno sfogo d’ira interiore, del quale solo lui si accorse perché solo lui c’era nella stanza.
Alessandro Magno sarebbe stato senza cavallo quella notte.
La Chiesa di Montalto Qualche giorno dopo, al Podestà, i due si rividero.
– Ma che fine ha fatto? Chiese Paride.
– Scusami. Sono stata in crisi per qualche giorno e non mi andava di coinvolgerti, rispose Elena.
– Capisco. Ma, allora, che ci amiamo a fare se non ci sosteniamo a vicenda?
– Si, lo so, ma mi era presa così. Perdonami.
– Ma cosa dovrei perdonare, io ti amo veramente.
– E poi, anche tu hai diradato ultimamente.
– E’ vero. Sono stato sotto pressione a casa. Temo che mia moglie sospetti qualcosa.
– Ah, ottima notizia. Bel discorso è questo. Credi che sappia di me?
– No, non penso. Ha però l’atteggiamento di chi non è tranquillo.
Salirono in ufficio e, nel giro di pochi minuti, dopo aver smaltito le tossine casalinghe, il rapporto riprese il suo corso.
Gli sguardi ripartirono intensi ed il desiderio tornò a crescere minuto dopo minuto.
Avrebbero voluto essere altrove, oppure che gli altri sparissero, ma non era possibile.
Erano appena tornati da una trasferta e nonostante nessuno sospettasse nulla, (almeno così speravano) era necessario mantenere almeno un minimo di contegno.
Erano mediamente dotati di intelligenza e cercavano di dissimulare la pressione degli istinti.
Un impegno nel comune di Pratovecchio Stia diventò l’occasione giusta; un cantiere da visitare, dove lei si recò verso le diciotto.
Un lavoro rapido ma adeguato per una buona copertura. Lui, alla stessa ora, oltrepassava il piccolo borgo di Papiano per salire la carraia fino alla chiesa di Montalto, uno dei luoghi più suggestivi e meno frequentati del Casentino, alle pendici del Falterona.
Una volta sul posto parcheggiò l’auto cercando di posizionarla al riparo da occhi indiscreti.
Intanto, l’aria afosa che aveva imbrigliato il tempo in quella giornata di fine luglio stordendo ogni forma di vita, stava per sublimarsi nelle nubi nere che si erano radunate attorno alla madre dell’Arno.
Un refolo di vento si levò improvvisamente e lo investì, recando la frescura sufficiente ad asciugargli la fronte.
Affacciato su quel grande orizzonte si guardava attorno riflettendo sul senso della vita.
Il gioco di luci chiaro scure offerto dai raggi solari che filtravano alla base dei nembi, si prestava assai bene a visualizzare metaforicamente quei pensieri.
Restò immerso dentro se stesso fino a quando non vide arrivare la sua auto.
Allora le andò incontro e lei fece altrettanto. Stavano ad un centinaio di metri e non potevano leggere l’espressione dei propri volti.
Intanto aveva iniziato a cadere qualche goccia che, tuttavia, non riusciva a bagnare la terra per via del calore che conteneva.
Però le meteore liquide avevano incontrato la sua camicetta evidenziando i capezzoli che sporgevano chiaramente.
Lui aveva il viso bagnato e sembrava che piangesse. Il temporale aumentò improvvisamente di intensità rendendoli fradici. Nell’ultimo tratto affrettarono il passo fino a correre prima di sciogliersi nell’abbraccio della pioggia.
– Ma tu stai piangendo?
– Si tesoro mio. Piango di felicità. Io ti amo, confessò Paride.
– Ti amo anche io. Tantissimo.
Nella parte retrostante dell’edificio sacro il breve spiovente del tetto non era sufficiente ad offrire un riparo ma neppure se ne accorsero.
In piedi contro il muro le sollevò la gonna e la prese sollevandola; lo tirava per i capelli mentre la penetrava.
Si guardavano senza poter staccare gli occhi bruciando la passione dei propri corpi e possedendosi, mentre i catini della tempesta finivano di rovesciarsi.
I gemiti dell’amplesso si confondevano con i suoni del vento che staccava precocemente le foglie morte a causa della siccità. Queste vorticavano attorno come fossero avide della loro immagine prima di depositarsi in attesa del disfacimento.
Infine si sdraiarono sulle lastre di pietra del marciapiede. Lei gli salì sul bacino e con le mani sul petto prese il suo ed il proprio piacere.
Restarono in quella posizione a farsi rinfrescare da una brezza tesa che scendeva dalla valle dell’Oia per un tempo indefinito. Quando tentarono di ricomporsi presero atto di quanto fossero intrisi d’acqua fin dentro le scarpe. Intanto il vento aveva pulito il cielo ed il nuovo sole procurava la lucentezza al fogliame su cui stavano grosse sfere liquide che non passarono inosservate. Queste catturarono la radiazione e, pur avendo solamente angoli curvi, restituivano tutti i colori dell’autunno ancora lontano, come ad indicare che in quella stagione i due amanti sarebbero stati ancora insieme.
(Fine puntata 18)
Marco Roselli, Gli Amanti di Piazza Tarlati, Fruska