Copenaghen (quarta parte) – 27/12 Malmo – Svezia meridionale
Il traghetto veloce tagliava una nebbia densa, quasi inquietante, che subito si richiudeva a poppa. L’orizzonte era buio e, benché molto vicine, le sponde di Danimarca e Svezia si potevano solo immaginare.
Qualcosa non era così sano quella mattina. Un filo d’ansia accompagnava Paride fin da quando aveva aperto gli occhi. L’aveva riconosciuta subito ma aveva cercato di ignorarla senza farne cenno. Si era preparato per questa gita con poca voglia ma non voleva darlo a vedere a Lucia.
Guardava dentro il nulla di quella bruma per capire dove si trovasse. La bussola che non aveva diceva nord, ma, il suo polo magnetico si trovava esattamente 2.300 km a sud.
Ancora due giorni.
Verso le dieci arrivarono al porto di Malmo. Traversata la Stora Torget – la vasta piazza a pianta quadrata – visitarono la St. Petri Kyrkan, la bella chiesa in stile gotico di Lubecca. Una passeggiata in centro ed un boccone in un caffè, prima di andare a vedere l’imponente castello Malmohus, che sorge all’interno di un sistema di parchi cittadini.
Da qualche parte doveva esserci il sole, tuttavia, a fine mattina, il cielo era restato la lastra di marmo di inizio giornata.
Camminavano in mezzo a laghetti e canali, pontili e cinte murarie. Conifere e betulle, macchie di sorbo svedese. Il posto era bello ma solo lei lo stava vivendo pienamente. Sarà stata quella cappa di fuliggine, sarà stato il freddo, ma lui continuava ad ascoltare troppo se stesso.
Altre volte gli era accaduto e conosceva quelle sensazioni. Un sentore di precarietà andava aumentando ed un lieve tremore traversava le sue spalle fino alla pancia.
La lama dell’ansia che rifaceva capolino gli ricordava antichi attacchi di panico. Come altre volte decise di ignorare quei segnali; la sua mente era allenata a farlo.
Si sforzò di apprezzare fino a che non fu ora di rientrare. Alle quindici il natante filava sopra quel ferro liquido e dentro nuvole basse dello stesso colore. In quella condizione l’oscurità avanzava senza alcun ostacolo, finendo di macinare quel giorno mai nato.
– Che cosa c’è? Chiese lei.
– Non lo so. Non mi sento molto in forma. Ho dolore alla schiena.
– Vediamo se passa, altrimenti andiamo subito in albergo.
Non ci arrivarono.
In vista delle luci di Copenaghen cominciò a sudare freddo e si accasciò sulla poltroncina, trafitto dal malessere.
– Tesoro mio! Così ?
Non rispose. Riuscì solo ad abbassare le palpebre in segno di assenso.
[Intanto la Kronos, uno speciale rompighiaccio, stava salpando per Gela Alta sulla costa occidentale della Groenlandia (Il senso di Smilla per la neve).]
Giunti sul pontile il personale di bordo lo aiutò a scendere.
– Dobbiamo andare al pronto soccorso, disse la donna.
Lui rispose di no, ma, a mala pena, riuscì a sedersi in una panchina. Il male che provava era acuto.
Nel giro di un quarto d’ora furono in taxi diretti all’ospedale. Come a volte capita – credo sia esperienza comune benché se ne ignorino le motivazioni – anche lui, quando furono in quei pressi, cominciò a sentirsi meglio.
Addirittura bene, scesi dalla vettura.
– Voglio che ti facciano una visita, affermò Lucia.
– Sto bene adesso. Sarà stato il freddo, rispose lui.
– Sicuramente, ma siamo qui.
Lei parlava un inglese fluente ed in breve spiegò la questione all’accettazione. Sbrigate alcune formalità furono indirizzati al reparto dove un medico lo avrebbe visitato.
[Passarono vicino all’Istituto di Medicina Artica. Mentre percorrevano il corridoio videro una lettiga con un bambino. Avrà avuto dieci anni. Capelli corvini, carnagione olivastra. Inuit. Sembrava che dormisse. Invece era morto. Era caduto dal tetto del palazzo dove abitava. Nessuno sapeva perché fosse andato lassù da solo. Aveva paura dell’altezza. Le orme che aveva lasciato sulla neve indicavano un movimento dispersivo. A Smilla Qaaviqaaq Jaspersen la cosa non era sfuggita.] (Peter Hoeg – Il senso di Smilla per la neve – rielaborazione di Marco Roselli).
La visita durò poco e si concluse senza una diagnosi precisa. Aveva ripreso tutto il colore e fu dimesso senza alcuna prescrizione. Con il cuore più sollevato ebbero voglia di camminare.
Passarono dal Langeline. Le arancioni e le blu degli impianti portuali erano lanterne di pescatori perdute in un oceano di nebbia che gelava a contatto con il suolo. Ci mancò poco che non si accorgessero della “Lille Havfrue”. La Sirenetta, (ogni volta mi ha lasciato indifferente) era coperta da uno spesso strato di ghiaccio che la rendeva meno banale.
Girarono per Amalienborg – un sito immancabilmente da visitare – sia pure superficialmente. Gli otto lati della piazza reale lo impressionarono. Ebbe l’idea di essere giunto in uno spazio dal quale non sarebbe più uscito. Come se i sette vizi capitali fossero aumentati di uno – quello che si sentiva addosso – specifico e personale.
Il senso di colpa. Non ne era mai stato del tutto alieno. Per lei un sentimento mai provato e immenso, eppure, evidentemente, insufficiente a sedarlo. Una sovra esposizione come quel viaggio, così improvviso e intimo, lo aveva fatto riemergere.
In vacanza, lontano dagli affanni del quotidiano e con la legittima consorte, aveva troppo tempo per pensare. Gli vennero in mente, inevitabilmente, i figli. Il loro senso di abbandono. Le sue scelte avrebbero condizionato per sempre la loro vita. Avrebbero torto il viso da lui?
Divenne pragmatico. Lei avrebbe tenuto i suoi. Ma lui, i propri, li avrebbe visti una volta a settimana?
Tutti questi vapori venefici iniziarono a corroderlo sempre di più, offuscando le luminarie delle festività di cui avrebbe dovuto godere.
Ma l’amore che sentiva era così intenso e coinvolgente da riuscire a spegnere qualsiasi umore inquinante.
I suoi neuroni ripresero a luccicare.
Così, l’ansia che gli provocava quello spazio tanto vasto ma angusto non divenne panico e riuscì ad uscire dal nono lato. Quello che si era creato con l’autoassoluzione.
(Fine puntata 9)
Marco Roselli, Gli Amanti di Piazza Tarlati, Fruska