di Gabriele Versari – In pieno autunno una passione irrefrenabile si diffonde come un’influenza stagionale in tutta Italia: è quella per la castagna, frutto amato per la dolcezza e il gusto inconfondibile racchiuso in ogni pezzo, qualunque metodo di cottura si adotti per assaporarlo al meglio. Viviamo in una terra in cui si ha la fortuna di potersi procurare tale prelibatezza con discreta facilità, essendo il Casentino un luogo cosparso di boschi unici e di castagneti antichissimi, come quello contenente il notorio “Castagno Millenario” situato presso la Camaldoli, nel comune di Poppi, all’interno del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi.
Questo tesoro, che la natura ci offre proprio durante l’attuale periodo dell’anno, racchiude in sé un valore simbolico che va oltre la mera consumazione gastronomica, essendo stato, in tempi non sospetti, un’importantissima forma di sostentamento alimentare per le popolazioni locali, soprattutto per quei comuni oggi lontani dall’area industriale che percorre i paesi di Corsalone, Bibbiena, Poppi, Porrena, Pratovecchio. A onore del vero, non più di ottanta anni fa, per i nostri concittadini, il bosco era un luogo dalla ricchezza sconfinata proprio per le risorse che vi sono presenti. In molti si prendevano cura dei castagneti situati nelle foreste.
Oltre alla raccolta delle castagne, era di fondamentale importanza anche la farina ricavabile da esse. Tale ingrediente è il risultato del processo di essiccamento del frutto che aveva luogo nei cosiddetti “seccatoi”, piccoli edifici in pietra locati solitamente all’interno delle aree boschive ricoperte dai castagneti. La farina concorreva ad essere un’ottima materia prima per prodotti come la polenta di castagne o il castagnaccio, alimenti fortemente sazianti di cui i contadini casentinesi si nutrivano per far fronte alla scarsità alimentare. A tal proposito, alcune domande sorgono spontanee: com’è cambiato oggi il trattamento delle castagne? Il prodotto potrebbe tutt’ora essere sfruttato per dare origine ad attività profittevoli? Esistono associazioni o enti che si occupano di valorizzare il frutto in Casentino? Ne abbiamo parlato con Andrea Giovannuzzi, vicesindaco del comune di Ortignano Raggiolo e membro del “Consorzio della Castagna” raggiolano.
Come è entrato a far parte del Consorzio? «Circa 10 anni fa decisi di mettermi in proprio e iniziai a gestire un’azienda agricola. Nello stesso periodo, interessandomi allo studio delle principali tecniche di coltivazione della frutta per organizzare il lavoro all’interno dell’attività, crebbe in me la volontà di occuparmi anche di castagne, essendo già a conoscenza dell’esistenza del “Consorzio” raggiolano, nato nel 2007. L’associazione, dopo un primo periodo caratterizzato dall’entusiasmo generale, aveva visto una parabola discendente della propria operatività a causa di alcune vicissitudini interne. Nel 2016 e nell’anno successivo riuscii a coinvolgere gli altri membri e li motivai a dare una scossa all’azione del gruppo attraverso due strategie principali: cercare e instaurare una collaborazione con la comunità scientifica, quindi la scuola di agraria della vicina Università di Firenze; pubblicizzare una nuova immagine del Consorzio, in modo da promuovere le attività del gruppo e renderlo noto ai più. Allo stesso tempo, si è cercato di mantenere un rapporto collaborativo con il comune di Ortignano Raggiolo, ente finanziatore del “Consorzio” fin dalla fondazione, e in contemporanea con la “Brigata di Raggiolo”, associazione locale».
Com’è strutturato il rapporto con la facoltà di Agraria di Firenze? «C’è stato un primo contatto con il professor Roberto Mercurio, ordinario esperto in selvicoltura dell’Università della Tuscia, il quale ci ha permesso di partecipare a diversi convegni e ad un progetto di ricerca organizzato dal dipartimento di fitopatologia ed entomologia della facoltà di agraria fiorentina. Si è trattato dunque di un contributo univoco da parte delle due istituzioni accademiche, le quali hanno collaborato ai fini della ricerca grazie anche al finanziamento del PSR Toscana (Programma di Sviluppo Rurale, con cui la regione concede lo stanziamento di fondi per le innovazioni del sistema agricolo). Lo scopo del progetto è stato quello di ideare un modello di coltivazione del castagno che fosse funzionale alle nuove condizioni climatiche che caratterizzano il nostro tempo».
Oltre ai cambiamenti climatici, sembra che fattori di ordine socioculturale ed economico abbiano oltremisura giocato un ruolo fondamentale nel calo della produzione di castagne. Cosa ha spinto il Consorzio a dare nuove possibilità al frutto? «Dopo il boom di ottanta anni fa, dagli anni Cinquanta e Sessanta, in concomitanza con lo spopolamento delle zone boschive, ci fu una fase di repulsione nei confronti della castagna, prodotto visto all’epoca come appartenente ad una cultura ormai arcaica. Da metà anni Novanta c’è stata una riscoperta della castagna e in particolare del marrone. Anche grazie all’operato dell’ecomuseo del Casentino, tali tradizioni rimangono vivide e tutt’oggi abbastanza diffuse. Ad ora, l’obiettivo del museo è quello di espandere quanto più possibile il mercato del prodotto, obiettivo che si scontra inevitabilmente con la limitatezza nella produzione dello stesso. Purtroppo, il calo demografico e l’abbandono dei boschi contribuiscono inevitabilmente ad abbassare il ricavato della castagna e dei prodotti affini, limitandone appunto la possibile diffusione ed il riscontro economico».
Avete mai pensato di fondare una cooperativa di comunità la cui operatività sia incentrata sul prodotto, sfruttando i bandi regionali che prevedono lo stanziamento di fondi per questa tipologia di iniziative? «Tale decisione non è ancora stata intrapresa a causa di un mancato rinnovo generazionale all’interno del Consorzio derivante dai motivi citati nella risposta precedente. Nonostante i venti anni passati dalla sua fondazione, i membri non sono aumentati. Non consideriamo la formula della cooperativa come vincente per il tipo di attività che vorremmo promuovere. Gran parte dei produttori locali, infatti, si occupano della coltivazione della castagna per hobby. Resta difficile tramutare l’attività in un lavoro visti i bassi se non addirittura inesistenti ricavi. In altre zone d’Italia (Emilia-Romagna, Alpi Liguri, cuneese), però, un ricambio generazionale sembra effettivamente in corso: sempre più giovani decidono di rigenerare vecchi castagneti o marroneti abbandonati riuscendo a produrre un reddito soddisfacente. Essi adottano un sistema di cura della pianta di tipo multifunzionale, comprendente non solo la raccolta delle castagne, ma altresì l’utilizzo dei ricci che ricoprono il frutto come materia prima per la produzione di cosmetici e del legno degli alberi per quella del carbone e di biomasse. Si comprende come grazie alla multifunzionalità è possibile vivere il castagneto tutto l’anno e non solo nel periodo attuale».
Cosa manca al Casentino per raggiungere tale livello di consapevolezza nella coltivazione e nella produzione delle castagne? «Duole dirlo, ma manca la fiducia in noi stessi e nei nostri mezzi. Serve abbandonare pessimismo e vittimismo. Per quanto mi riguarda, in Casentino occorrerebbe perseguire un obiettivo che preveda un sistema economico ambivalente, sia industriale che agricolo. Insieme a ciò, un ausilio da parte delle istituzioni con incentivi e investimenti è fondamentale per il successo imprenditoriale, oltre ad un alleggerimento della burocrazia che pone un freno al lavoro. Non si pensi che i prodotti industriali dei supermercati possano ostacolare la vendita di quelli artigianali che noi difendiamo. Chi ha interesse a procurarsi un prodotto autentico non è disposto a scendere a compromessi. Prendiamo come esempio la farina: quella di origine industriale è già presente nel reparto frutta i primi giorni di ottobre. Quella che invece si produce nei seccatoi non può essere disponibile fino al mese successivo, poiché i tempi di essiccazione della castagna sono di circa 30 giorni. Quando si vende una farina di origine completamente naturale ciò che il cliente acquista non è solo il prodotto gastronomico ma anche tutto l’iter produttivo che sta dietro ad esso, grazie al quale è possibile renderne il colore ed il sapore unici e inconfondibili. L’ecomuseo e l’associazione della “Brigata di Raggiolo” svolgono un’azione importante nella divulgazione della filiera della castagna anche per i più piccoli, con diversi incontri organizzati nelle scuole locali».
In ultimo, vorrebbe lanciare un appello per promuovere il frutto della castagna e i relativi prodotti derivati? «Ciò che mi preme sottolineare è che occorre necessariamente porre l’attenzione sullo spopolamento delle nostre zone. Paesi come Raggiolo subiscono anno dopo anno un aumento generale dell’età media e diverse attività locali chiudono i battenti. Pertanto, è necessario riportare i piccoli borghi al centro delle politiche economiche e culturali, valorizzando ciò che di più prezioso regalano: le tradizioni e le prelibatezze culinarie, tra le quali la castagna è protagonista indiscussa!»