di Giorgio Innocenti Ghiaccini – In tutta la Toscana sono ricordati improbabili ponti, case e vie del Punico ed ho sentito sempre dire: «Annibale è passato di qui!». Sono convinto, che nel giugno del 217 a. C., abbia percorso il Casentino su una via etrusca in terra battuta. Infatti i Romani iniziarono a lastricare queste piste solo dopo il 200 a. C. La via di Serra, forse, lo è stata nel 187 prima della nostra era. Non ci deve confondere il fatto che siano state trovate ossa di elefante, non fossilizzate, negli Appennini della Toscana occidentale. Riferiamoci solo agli scritti di Tito Livio e si valuti in maniera asettica anche quello che ho scritto io. In queste righe, le parole di Tito Livio (59 a.C. – 17 a.C.) sono in corsivo con la traduzione dal latino. Avrei voluto riportare tutto, ma lo spazio mi limita.
Conoscendo le indubbie qualità strategiche di Annibale, che valutava tutto e tutto voleva sapere (prima di contattare il nemico, studiava anche il carattere degli avversari), c’è da chiedersi quale percorso avesse intrapreso dai campi invernali dell’Emilia e quale strategia possa aver tenuto per giungere in sicurezza ad Arezzo.
Sicuramente, nell’ozio invernale e nell’attesa della primavera, Annibale inviò fino in Etruria pattuglie a cercare le vie migliori per scegliere l’opzione più consona al suo cammino verso sud. Praticamente, prima di partire in quel giugno, conosceva già perfettamente la situazione viaria per valicare l’Appennino. Certamente sapeva quali fossero le vie presidiate dai Romani e quali no. Le sue efficientissime spie avevano riferito anche che il Console Flaminio era già ad Arezzo.
L’unico vero pericolo per lui sarebbe stato quello di dover affrontare assieme le legioni delle roccaforti di Rimini e di Arezzo, che sbarravano le “porte” verso Roma. Quindi, obbligato ad affrontarle, ne avrebbe dovuto scegliere una, senza far capire quale fosse. Doveva costringere i Consoli a rimanere saldi nei loro presidi e impedire che si potessero dare aiuto reciproco. Questo spiega anche la necessità di una marcia velocissima, appena fosse stata svelata la direzione intrapresa. Tito Livio ricorda infatti: “[…] le veglie sopportate quattro giorni e tre notti […]” del viaggio. Per guadagnare tempo l’esercito marciò anche la notte.
Superati i monti, Annibale giunse presso l’Arno straripato per le piogge di quei giorni: “[…] fluvius Arnus per eos dies solito magis inundaverat […]”. Con una colonna lunga 10/15 km, di circa 25000 uomini e molti animali. Si trovò in notevole difficoltà a causa dello straripamento dell’Arno, visto che non poteva invertire il cammino anche per la strettezza della pista. Tito Livio spiega la disposizione di marcia. I Galli, più “fiacchi”, erano al centro della formazione, preceduti dagli Ispanici e Cartaginesi e seguiti dai Numidi che li “spingevano” tenendo serrati i ranghi. A noi interessa però dove Annibale avrebbe potuto incontrare l’Arno.
Qui devo inserire alcune mie riflessioni che non sono documentate, ma semplicemente frutto della mia fantasia!
Partiamo dall’Emilia e consideriamo due ipotesi (Cartina 1).
Se il Punico fosse partito verso sud da Bologna per Scarperia – Borgo S. Lorenzo, avrebbe incontrato l’Arno alla foce della Sieve.
Il Console di Rimini, appena fosse stato avvertito della via intrapresa da Bologna, avrebbe potuto correre in aiuto ad Arezzo. Annibale avrebbe dovuto fare circa 170 km con gli animali al seguito (i chilometri sono stati rilevati su internet e il calcolo è stato fatto a piedi). Le legioni di Rimini probabilmente sarebbero arrivate prima di lui, avendo da fare solo circa 130 km. I Romani, in tal caso, lo avrebbero messo tra due fuochi, com’erano soliti fare, e lo avrebbero certamente battuto. Se addirittura avesse percorso vie più ad ovest, per lui sarebbe stato ancora peggio e avrebbe anche allungato il viaggio rendendo inutile il “correre” e il marciare di notte come Tito Livio ci narra.
Se invece Annibale avesse fatto la via Emilia, in piena calma, facendosi “spiare” e obbligando così i Romani alla difesa delle loro due città, e improvvisamente, da Forlì si fosse diretto verso sud con una marcia decisa e veloce, avrebbe svelato le sue intenzioni solo allora, ma sarebbero rimasti da fare solo circa 115 km. In ogni caso, sarebbe arrivato ad Arezzo prima del Console di Rimini perché, avvertito della deviazione del Punico, avrebbe dovuto perdere anche un po’ di tempo. Si sarebbe dovuto accertare che la manovra non fosse un diversivo per fargli lasciare la roccaforte indifesa. Secondo i piani di Annibale sarebbe quindi intervenuto in ritardo.
Fu così e Tito Livio ce lo conferma allorché ci racconta che i collaboratori, quando Flaminio decise di seguirlo alla volta del Trasimeno illudendosi di vincerlo, raccomandavano al loro console: “…collegam exspectandum, ut coniunctis exercitibus…”, ovvero: che sarebbe stato opportuno aspettare il Console di Rimini per avere gli eserciti uniti.
Sappiamo per certo, che Annibale, quando giunse all’Arno, dovette fare una scelta tra due vie. Il cronista riporta che, tra due tragitti esistenti, scelse quello più breve attraverso le “paludi”, dalla parte in cui l‘Arno in quei giorni era tracimato più del solito. Lo fece benchè gli si offrisse un’altra via, più lunga, ma più facile:“[…] cum aliud longius, ceterum commodius ostenderetur iter, propiorem viam per paludes petit, qua fluvius Arnus per eos dies solito magis inundaverat […]”.
Quindi dopo aver “corso” per tre giorni e tre notti, si trovò in prossimità dell’Arno in piena che, venendo da nord, poteva incontrare solo nella zona di Pontassieve (percorso 1) o in quella di Bibbiena (percorso 2).
Le due distanze erano compatibili con la marcia di tre giorni (Bologna – Pontassieve circa un centinaio di km e Forlì-Bibbiena un’ottantina di km). Valutiamo ora questi due percorsi per giungere nei pressi di Arezzo da quando Annibale arrivò all’Arno deciso di costeggiarlo (Cartina 2).
La pista più breve (vedi cartina 2), da Pontassieve ad Arezzo (percorso 1) sarebbe stata l’itinerario di quella che in futuro sarebbe stata la “Cassia Vetus”. Percorrendo l’Arno presso Montevarchi, il tragitto sarebbe stato più lungo e più scomodo, visto che nel Valdarno, il fiume ha un percorso più lungo di quella che sarà la Cassia vetus. Di lì non si sarebbe però trovato, come scrisse Tito Livio: “per praealtas fluvii (correnti con acqua alta) ac profundas voragines (e profonde voragini )” e la via sarebbe stata più corta e anche più comoda: l’incontrario di quello che scrisse lo storico. Sarebbero rimasti ancora circa 65 Km da fare per giungere ad Arezzo e sarebbero occorsi almeno due giorni per arrivare.
La pista che avrebbe invece percorso Annibale passando per il Casentino (percorso 2), alla destra dell’Arno, sarebbe stata veramente più scomoda, ma anche la più breve. Questo percorso da Bibbiena ad Arezzo sicuramente era quello che, da Rassina in giù, continuava a costeggiare perfettamente il fiume, come scrive Livio, sulla sponda destra, arrivando al Castelluccio. Quindi, se Annibale decise di prendere la via più corta e più scomoda, non poteva che scegliere questa. Erano rimasti da fare meno di 20 Km per arrivare nei pressi di Buriano; era l’ultimo giorno di viaggio: il quarto!
La più lunga e più comoda, ovvero quella che non scelse, poteva essere la pista che oggi passa da Ponte alla Chiassa. Forse Annibale, sapeva anche che, passando di lì, sarebbe andato dritto in “bocca” ai Romani di stanza ad Arezzo. Probabilmente a lui risultava che questa via sarebbe stata presidiata, proprio perché comoda, e vi poteva essere attaccato. Durante la marcia era il momento in cui gli eserciti erano più vulnerabili (vedi la battaglia di pieve Toppo nel 1288).
Rimane il problema delle Paludi. Pare strano che Annibale, che sapeva dell’esistenza di due vie, fosse finito ingenuamente dentro a paludi con “vortici e voragini”, che sono il contrario della calma piatta di un “pantano palustre”. In queste i Galli addirittura non riuscivano né a tenersi in piedi, né a rialzarsi se caduti: “Galli neque sustinere se prolapsi neque adsurgere ex voraginibus poterant”. Questo avviene se c’è forte corrente ed era possibile se le “paludi”, in realtà, fossero state l’effetto dell’esondazione del fiume che aveva interessato la via scelta.
Il cammino dei soldati doveva comunque continuare per l’impossibilità di tornare indietro e la necessità di precedere l’esercito di Rimini in aiuto a quello di Arezzo. Si ricordi che ai tempi delle guerre puniche un’esondazione non era prevedibile.
Noto che solo in Casentino, che ha un bacino imbrifero relativamente piccolo, possono generarsi inondazioni di giugno a causa di forti piogge distribuite su tutta la “piccola” valle. Famoso il temporale dell’undici giugno 1289 dopo la battaglia di Campaldino. Dante lo ricorda nella Divina Commedia nel brano di Bonconte.
Su quell’itinerario di destra dell’Arno, i greppi sono ripidi e non avrebbero consentito un’uscita laterale. Sulla pista erosa dalla corrente forse si formarono anche le “profonde voragini” descritte da Tito Livio.
Proseguo con la storia di Tito Livio. Quando finalmente Annibale portò gli accampamenti all’asciutto : “[…] ubi primum in sicco potuit, castra locat […]” doveva essere dove il terreno pianeggiava. Forse era arrivato nella zona del Castelluccio, di Cincelli o Buriano. Sicuramente si accampò dalla parte destra dell’Arno, che era strategicamente protetta dall’attacco dei Romani.
Annibale li avrebbe battuti sul guado dell’Arno. Il Punico conosceva bene questa tattica già vincente sul Trebbia, dov’era presente anche il giovane Publio Cornelio Scipione, che incontrerà una quindicina di anni dopo e diverrà più noto come “l’Africano” dopo la vittoriosa battaglia di Zama. Torno alle cronache di quei giorni. Gli accampamenti finalmente erano stati piazzati e Annibale: “[ … ] da esploratori mandati in ricognizione venne a sapere con certezza che l’esercito romano stava intorno alle mura di Arezzo. Si diede poi a indagare, ricercando con somma cura quali potessero essere i disegni e le segrete intenzioni del Console, nonché la posizione dei luoghi, i percorsi, i mezzi atti a procurarsi vettovaglie: in generale, tutto quanto fosse utile da conoscere […]”.
Gli esploratori, al ritorno, riferirono ciò che avevano potuto appurare: “[…] La regione era tra le più fertili d’Italia; i campi di Etruria, che si estendono tra Fiesole e Arezzo erano ricchi di frumento, di bestiame ed abbondanti di ogni cosa […]”. Se le pattuglie, al ritorno, riferirono che si poteva razziare in Valdarno, vuol dire che i Cartaginesi non erano passati di lì, ma dalla via lungo l’Arno in Casentino.
Concludo con un altro importante frammento di Tito Livio e la relativa traduzione: “[…] et laeua relicto hoste Faesulas praeteriens medio Etruriae agro praedatum profectus […]”; ossia: “[…] lasciato il nemico alla sinistra, partì in direzione di Fiesole e attraverso i campi dell’Etruria si diede a predare […]”.
Se Annibale, in vista di Arezzo, dopo essere arrivato da nord costeggiando l’Arno, per andare a predare e far danni si mosse in direzione di Fiesole, lasciando il nemico (Arezzo) alla sinistra (et laeva relicto hoste), non poteva che venire dalla via della Zenna.
Fino a Rassina, da S. Martino in Strada, deve aver fatto quella che, presumibilmente, avevano percorso in parte i legionari Romani, partiti da Arezzo, nel 266 a.C. per andare alla conquista di Sarsina; quella che fecero i cavalieri del Duca di Parma nel 1642 per andare alla riconquista di Castro o quella che percorse il milanese Giangaleazzo Visconti per venire a Bibbiena.
Era la via ritenuta migliore da Bologna esattamente come scritto anche negli Annales Stadenses.
(tratto da CASENTINO2000 | n. 296 | Luglio 2018)