di Fabio Bertelli – Da poco passata la ricorrenza del 25 Aprile, volta a ricordare e celebrare tutti coloro che hanno dato la propria vita per liberare l’Italia, la storia che andremo a raccontare riguarda un episodio avvenuto in piena Seconda Guerra Mondiale e in piena lotta partigiana.
Questo fatto ci è stato narrato da Roberto Giovannuzzi (nella foto sotto), al quale a sua volta è stato tramandato dal padre Natale Giovannuzzi, che ha vissuto in prima persona ciò che verrà raccontato. La famiglia Giovannuzzi, di cui Roberto fa parte, è da secoli legata al territorio del Pratomagno, sia da un punto di vista lavorativo che affettivo. Non è un caso, dunque, che la storia sia ambientata proprio in questo luogo. Ma facciamoci spiegare meglio cosa è successo.
Ci può narrare questo episodio? «Innanzitutto, occorre fare alcune premesse. Siamo nell’estate del 1944 quando tre soldati russi riescono a fuggire da un campo di prigionia tedesco a Laterina e si rifugiano in Pratomagno. Mio padre, allora diciottenne, era solito vagare per quei territori a lui così cari. Fu così che nel maggio del 1944 vi fu il primo incontro. Mio padre, vedendo questi tre ragazzi affamati, indicò loro un posto dove potersi rifocillare, mandandoli verso la capanna di mia zia Chiara, la sorella di suo padre Giuseppe, in località Garghereto. In questo modo iniziò una stretta collaborazione tra questi ragazzi ed i pastori del luogo; i primi si unirono alla lotta partigiana e i secondi gli garantirono un riparo e del cibo. Si creò uno stretto legame, tanto che i tre ragazzi, nonostante non conoscessero la lingua italiana, si rivolgevano a mia zia con l’appellativo “Mama”. Arriviamo così al luglio. I rastrellamenti tedeschi stavano aumentando, fino ad interessare le zone limitrofe a Raggiolo. Fu allora che mio padre e mio nonno (Giuseppe Giovannuzzi, classe 1892), come erano soliti fare quando sentivano “odore di pericoli”, decisero di spostarsi in località Acerae, dove è situata una grotta segreta dove potersi rifugiare. Portandosi dietro delle balle di carbone riempite con foglie secche di faggio (che fungevano da letto) e qualche provvista alimentare, trascorsero lì qualche giorno. In uno di quei giorni, in tarda mattinata, mio padre e mio nonno udirono dei rumori che li insospettirono. Incuriositi ed impauriti allo stesso tempo, si sporsero fuori dalla grotta per cercare di capire che cosa stesse succedendo. I tre ragazzi russi stavano scendendo in fila indiana, spostandosi dalla località “Ronchi del Cappellano” verso la zona nota come “Aia del Braccini”. I tedeschi, invece, stavano salendo da Raggiolo in direzione della medesima zona.
Ritrovatisi faccia a faccia, i tedeschi furono i primi ad aprire il fuoco con le loro mitragliette ed uccisero il primo della fila, che cascò nel ciglio della carbonaia. Gli altri due, invece, furono svelti nel fuggire e, conoscendo il territorio meglio degli invasori tedeschi, riuscirono a mettersi in salvo. Passata qualche ora e calmatesi le acque, mio nonno ordinò a suo figlio di rimanere ancora nascosto, mentre lui decise di ritornare verso Raggiolo. La curiosità di mio padre lo spinse, però, ad andare verso la carbonaia. Qui trovò il corpo del russo disteso a terra, vestito molto bene, con stivali (preziosi all’epoca) e pieno di armi, le quali venivano lanciate con i paracaduti dagli Alleati. Ritenendo fosse degno celebrare quel giovane ragazzo con una sepoltura, tornò anche lui verso Raggiolo per cercare qualcuno che potesse aiutarlo nel suo intento il giorno seguente. Purtroppo, la paura era tanta e nessuno era disposto ad aiutare mio padre in una faccenda che poteva costare persino la pelle. Armatosi di coraggio, agli albori del giorno successivo decise di partire da solo e concedere al soldato russo la sepoltura che meritava. Arrivato sul luogo si trovò davanti uno spettacolo tetro; l’uomo, oltre ad essere completamente nudo (i vestiti e gli scarponi erano merce rara e qualcuno trovandolo glieli aveva sottratti), aveva alcune parti del corpo mangiate dagli animali del bosco. Un’altra particolarità notata riguardava il fatto che quel ragazzo era stato colpito da un solo proiettile fatale, che gli aveva forato il palmo della mano destra e la fronte. Ciò perché aveva messo la propria mano a difesa della testa in un ultimo insperato tentativo di salvarsi. Mio padre non si fece di certo scoraggiare e, scavata una buca, adagiò lì il povero ragazzo, proprio di fronte alla carbonaia. Per evitare che vi potessero andare gli animali vi ripose sopra dei sassi e, per celebrarne la memoria, mise una croce in legno».
Terminata la guerra, ci sono stati degli sviluppi di questa storia? «Nel 1949 furono recuperati i resti del ragazzo e furono portati nel cimitero di Raggiolo. Dopodiché, tramite la cooperazione delle autorità, nei primi Anni ’50 i resti furono rimpatriati e restituiti alla famiglia. Per quanto riguarda la celebrazione in loco della memoria di questo avvenimento, mi sono mobilitato personalmente insieme ai miei fratelli: Remo, Giuseppe e Renato. Remo ha costruito una grande croce in pietra che è stata posizionata al centro della carbonaia; Renato una targa in legno con inciso l’anno della morte, che è stata attaccata ad un albero di faggio. Infine, io mi occupo personalmente di celebrare ogni anno la memoria di questo giovane ragazzo riponendo dei fiori sopra la sua tomba».
Per quanto riguarda la figura di suo padre, c’è qualcosa che richiami quel suo gesto eroico? «Mio padre, così come mio nonno e mia zia, sono sempre stati molto discreti. Hanno aiutato un numero elevato di partigiani fornendo loro cibo e riparo nelle capanne. Tuttavia, non hanno mai voluto essere al centro dell’attenzione e hanno preferito agire nell’ombra, lontani da elogi e onorificenze. Inoltre, come la maggior parte delle persone che hanno vissuto le atrocità della guerra, anche mio padre era molto restio nel parlarne, dal momento che ciò evocava in lui terribili ricordi. Nonostante ciò, io e i miei fratelli abbiamo voluto in qualche modo onorare la nostra famiglia, e non solo. In un cippo collocato in una zona più alta rispetto alla tomba del ragazzo russo, è possibile osservare una pietra volta a celebrare tutta la mia famiglia, che da sempre ama e protegge il Pratomagno, e la resistenza partigiana, portata avanti da molti uomini e donne in questi luoghi. In questa pietra è incisa una poesia scritta da me».
Questa storia non è così lontana dai nostri tempi. Il 25 Aprile, la Festa della Liberazione dell’Italia, deve essere un monito a ricordare che i nostri genitori e i nostri nonni hanno combattuto per garantire la libertà di cui noi oggi godiamo. Tutti coloro che hanno contribuito, in un modo o in un altro, a garantire questo fondamentale diritto erano uniti da un unico ideale, da un unico obiettivo. Non esistevano colori politici o bandiere nazionali. Questo episodio ne è un’incredibile testimonianza. Tre ragazzi russi, poco più che ventenni, che si sono messi a disposizione per aiutare i partigiani italiani nella resistenza e nella lotta all’invasore. Il legame che si è creato tra questi e le donne e gli uomini che hanno offerto loro cibo e riparo è molto importante. Le barriere non esistono naturalmente, sono gli uomini a crearle. Perciò ringraziamo Roberto Giovannuzzi per averci raccontato questa incredibile storia e per aver evitato che potesse essere dimenticata nel tempo.