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mercoledì, 9 Aprile 2025

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La Cecchina

di Fabrizia Fabbroni – Era una ragazza strana per i suoi tempi. Certamente non la si sarebbe potuta definire un tipo ordinario, allineato alle convenzioni dettate dal periodo in cui visse la sua gioventù, come si può indovinare da alcune fotografie che la ritraggono in atteggiamenti divertiti e controcorrente.
Nacque il primo di marzo del 1920 durante gli ultimi strascichi della Spagnola, la pandemia che dalla fine della guerra del 15-18 stava mietendo in Europa più vittime del conflitto stesso.

Ma in casa, della Spagnola non si sentiva parlare mai, c’erano troppe altre cose cui pensare: la baracca da tirare avanti, la stalla, i campi… tutto il duro lavoro di mezzadri sottoposti ai Signori di quelle vaste campagne, i Guillichini.
In casa si parlava d’altro, si rammentava soprattutto la Donatina, la più piccola fra fratelli e sorelle di “quei de Guscio”, come venivano soprannominati i Salvi di Tregozzano, morta a soli tredici anni “con i reumatismi che le avevano preso il cuore”. Poi, durante e dopo la guerra, molto si parlò dei fratelli Mario e Giustino, partiti per il fronte, e tanto si pianse e si pregò soprattutto per quest’ultimo, il più giovane, fatto prigioniero dopo l’otto settembre e rinchiuso in un campo di concentramento in Germania.
Lei, la Cecchina, fra i lavori dei campi e quelli di casa, ben prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, si dovette chiedere più di una volta se veramente “la vita fosse tutta lì”.

Essere donna in campagna nell’aretino, come nel resto dell’Italia a quei tempi, figlia di contadini e contadina lei stessa, e perlopiù essere bella, bellissima ancora la dicono, non era di certo cosa del tutto facile.
Ma la Cecchina fin da piccola aveva frequentato la Villa, aveva giocato con le contessine, aveva indossato i vestiti che queste le regalavano quando a loro non andavano più, aveva imparato la cura dei fiori e delle piante dal bravo giardiniere che della Villa curava i vasti giardini all’italiana, aveva imparato ad usare un linguaggio corretto, sia pur mantenendo la sua innata, costante e ridente schiettezza, e per tutta la vita seppe mantenere la capacità e la virtù di utilizzare per sé e per la famiglia, e per i tanti che a lei si rivolgevano, le doti acquisite. In quel contesto probabilmente germogliò lo spirito di iniziativa che da sempre la contraddistinse e che infine le fece trovare il modo di andarsene di casa e dai lavori dei campi, ma senza strappi o alzate di testa.

Fu assunta nel 1939 come inserviente presso il Collegio Regina Elena di Sansepolcro, di certo anche per l’intercessione della Signora dei Guillichini che per la Cecchina provava affetto e stima come per una figlioccia. Nel prestigioso Istituto per signorine la giovane si distinse subito e, curiosa e intraprendente com’era, presto divenne assistente in infermeria dove imparò molte tecniche di cura che utilizzò con profitto nel suo volontario servizio agli altri durante il tempo di guerra e, in seguito, ogni qualvolta se ne presentasse la necessità.
Tornò a casa dopo qualche anno per essere di aiuto ai genitori, dopo lo scoppio del conflitto quando, come si è detto, i fratelli dovettero partire soldati.

Nel settembre del ’43 si sposò con Mario Fabbroni, di una famiglia di bravi artigiani del Borgo a Giovi, che in quel periodo prestava servizio in polizia a Bologna. Dopo la cerimonia, celebrata alla parrocchiale di Tregozzano. lei rimase con “i suoi vecchi” per non lasciarli soli in quel tempo cruciale e doloroso, e lui ritornò nella sua sede al di là dell’Appennino. Ben presto furono brutalmente separati dalla Linea Gotica e da tutto quello che ne conseguì per lunghi, lunghissimi mesi. Per andare a trovare la “su’ Cecca”, così la chiamava lui affettuosamente, anche solo per un giorno, Mario affrontò avventure a dir poco rocambolesche.

E vennero quei giorni di fine giugno del 1944. La Cecchina stava andando con Nanni, Giovanni Salvi suo padre, a mietere il grano in un podere così detto “il Piano” verso la chiusa del torrente Chiassa. Lungo la provinciale che da Tregozzano conduce alla Chiassa Superiore vennero prelevati dai Tedeschi, condotti e poi rinchiusi, insieme ad altre centinaia di persone rastrellate nello stesso modo, dentro la Chiesa di Santa Maria Assunta di quel paese.

Da una banda di sedicenti partigiani era stato catturato un Colonnello dell’esercito tedesco e, se questi non fosse stato liberato entro 24 ore, gli oltre duecento civili prigionieri nella chiesa sarebbero stati passati per le armi. Una strage annunciata, come molte che nel nostro territorio trovarono in quei mesi un tragico epilogo: fra i tanti proprio negli stessi giorni si dovette piangere per i terribili fatti di Civitella. Francesca Salvi, la Cecchina, con il suo solito spirito di iniziativa riuscì a scappare insieme ad altri dalla finestra della sacrestia. Ma se non fosse stato per l’intervento di Gianni Mineo e di altri valorosi che l’affiancarono, come Giuseppe Rosadi, e che riuscirono dopo avventure che hanno dell’incredibile a riportare appena in tempo al comando tedesco della Chiassa il Colonnello Von Gablenz, tutti tutti sarebbero stati trucidati. Di queste vicende sono stati pubblicati recenti e approfonditi studi di Santino Gallorini, “Vite in cambio” e “I partigiani di vite in cambio”, oltre a quello scritto subito dopo i fatti, di Renzo Martinelli, “I giorni della Chiassa” di cui esiste una copia con le integrazioni e le osservazioni a margine stilate a mano della stessa Cecchina che quei giorni aveva vissuto sulla propria pelle. Una di queste, alla pagina 280, recita: “Portarono a casa mia tanti feriti da medicare, ma molti mi morirono mentre li curavo”. Al tempo la Cecchina aveva 24 anni.
I tedeschi si ritirarono, ma la guerra non era ancora finita.

Restarono a terra i campi minati che quelli avevano lasciato prima di sgombrare le zone a valle, c’erano i bombardamenti degli “alleati” dal cielo e arrivarono le cannonate dagli Appennini dove era arretrata la Linea Gotica attestandovisi per lunghi dolorosissimi mesi.
Anche in quei frangenti la Cacchina non si arrese e non si risparmiò mai: non senza una certa incoscienza giovanile, unita a un notevole coraggio, andava a portare intorno il proprio servizio medico-infermieristico a feriti e malati “perché” diceva lei “quel che c’è da fare si fa”. E partiva con la sua valigetta del pronto soccorso sfidando mine e cannonate. Erano gli stessi medici condotti che spesso le segnalavano i casi su cui intervenire.
Furono esperienze forti che lasciarono traccia nell’animo suo, che a volte si rivelarono nel tempo con certi contraccolpi strani. La Cecchina infatti, nel corso della vita, dimostrò segni di inquietudine, ad esempio, se anche solo da lontano un rombo andasse annunciando l’avvicinarsi del passaggio di un aereo.

Ma anche in tempo di pace, sia a Bologna dove si trasferì per circa venti anni, sia ad Arezzo dove poi ritornò, continuò a portare, ovunque ce ne fossero bisogno e richiesta, le cure in cui si era ormai specializzata col tempo, e affinandosi in altre.
Resta ancora nella memoria della gente l’abilità con cui praticava iniezioni, medicazioni, fasciature, massaggi, e con cui si adoperava anche nella cura delle mani e soprattutto dei piedi. E poi “sapeva ascoltare” dicono ancora coloro che si avvalsero dei suoi accudimenti, e che da quella capacità di ascolto, tutta speciale, si sentivano confortati quanto dall’abilità con cui usava gli attrezzi da lavoro.

La guerra dunque finì. Mario finalmente poté andare a prendere la “su’ Cecca” per portarla a Bologna. Partirono sopra un camion traballante, perché le linee ferroviarie erano ancora completamente inagibili per i recenti eventi bellici, passando per la Futa in un viaggio lungo e disagevole. Dopo un anno nacque una bambina. Per la famiglia quelli che seguirono furono tempi di lavoro, operosità, misurato progresso, amicizie e collaborazioni in un tessuto sociale di ripresa e di entusiasmo in quel dopoguerra in cui “si ricostruiva l’Italia”. (Per ulteriori approfondimenti di questo periodo si rimanda alla lettura di “IO CHE-da uno a dodici anni” di Fabrizia Fabbroni).
Poi ritornarono in Toscana, di cui la Cecchina aveva troppa nostalgia.

Di lei a Tregozzano tutti ricordano il giardino della sua casa sempre fiorito, in ogni stagione, e l’amore per gli animali, soprattutto per i volatili che puntualmente governava fin sul davanzale della finestra, salvo poi rimanere un po’ delusa se questi estendevano le proprie voraci pretese alle olive, all’uva, alla roba dell’orto. E ricordano quella connaturata tendenza alla felicità e alla bellezza che era da lei espressa anche con il canto esercitato da sempre. Con bella voce amava intonare le canzonette di ogni tempo e le arie delle opere più famose anche mentre sbrigava le faccende di casa. Del resto, da giovane, era stata attrice e cantante per un gruppo amatoriale del suo paese, e spesso, intonando “Lili Marleen”, rammentava di aver recitato e cantato anche in tempo di guerra nel teatro all’aperto del bosco dei Guillichini.

La cura degli altri fu l’ultima abilità che lasciò andare prima di ammalarsi gravemente.
Presso l’RSA all’Istituto Boschi di Subbiano, che la ebbe ospite negli ultimi anni della sua vita, la ricordano come “la farfalla” per la leggerezza che sempre la contraddistinse anche nelle situazioni più gravi.
Se ne andò il 30 di gennaio del 2004, nei giorni della merla, freddissimi davvero quell’anno.
Chi l’accompagnò ricorda che al cimitero non si stava in piedi da quanto ghiaccio c’era in terra, ma da una corona ognuno andando via colse una rosa come da un giardino.
La Cecchina era mia madre.

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