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domenica, 8 Settembre 2024

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Si avvisano i lettori che il seguente approfondimento tratta tematiche sensibili, relative alla procedura medica di Interruzione Volontaria di Gravidanza.

di Gemma Bui – Ho incontrato G., una ragazza di 26 anni che vive ad Arezzo, per ricevere una testimonianza sulla sua esperienza diretta nel processo per l’IVG (Interruzione Volontaria di Gravidanza). Specifico di non voler eseguire alcuna “romanticizzazione” del tema, e di limitarmi a riportare fedelmente i fatti a me raccontati (precedentemente verificati tramite la consultazione della relativa documentazione medica da lei fornitami) attraverso una narrazione il più oggettiva possibile.

I fatti risalgono all’Agosto del 2021, in pieno periodo pandemico. In quel momento G. ha 25 anni, uno storico clinico di vari problemi legati ad allergie e intolleranze e uno stato di salute mediamente cagionevole. Inoltre, ha già subito in precedenza due interruzioni volontarie di gravidanza.

Dopo quanto ti accorgi di essere in gravidanza? Come ti muovi poi per contattare le Strutture Sanitarie e approcciarti alla procedura medica? «Me ne accorgo il 3 Agosto 2021. Lo sospettavo già da prima, ma quel giorno mi sveglio con svenimenti e nausea, decido di fare il test, e capisco di essere incinta; la prima cosa che penso è “non lo voglio”, ponendomi subito nell’ottica di dover “risolvere un problema”. Tra l’altro sono abbastanza sicura della decisione presa, questo sarebbe il mio terzo aborto. I due precedenti li ho eseguiti per via farmacologica, con la pillola RU486, entrambe le volte subendo effetti collaterali: la prima con vomito e fibrillazioni immediati; la seconda con una vera e propria reazione allergica, sopravvenuta successivamente. Quindi mi impongo di evitare in ogni modo nuovamente l’utilizzo della pillola abortiva. Decido di chiamare subito la mia ginecologa, che non esercita in ospedale ma solo privatamente, chiedendole cosa dovrei fare. Mi risponde che generalmente l’unica alternativa all’RU486 è la procedura chirurgica, cioè il raschiamento. Mi dice anche che tale intervento comporta comunque dei rischi, legati all’anestesia totale a cui mi dovrei eventualmente sottoporre, considerando i miei problemi allergici (G. è allergica a praticamente tutti i tipi di anestesia massiccia, mentre tollera la sedazione, ndr). Esiste però una procedura adeguata alla mia richiesta: l’isterosuzione, effettuabile entro l’ottava settimana, consistente in un’aspirazione tramite cannula, da poter eseguire prima che l’embrione si impianti in maniera definitiva nell’utero.»

Quali sono dunque il procedimento e i tempi per trovare strutture e professionisti disponibili a effettuare l’IVG? «La dottoressa mi dà una lista di ginecologi da poter consultare per richiedere la procedura. Ne chiamo quattro: sono tutti obiettori. Decido quindi di contattare una clinica privata di Firenze, che però mi risponde che in Toscana la procedura che ho richiesto non viene eseguita, poiché è necessario effettuare l’iter tramite consultorio. Devo quindi obbligatoriamente passare per il canale pubblico, nonostante io sia disposta anche a muovermi privatamente per fare l’operazione; in più, siamo in periodo Covid e io non so se “fidarmi” delle strutture locali.

Mi viene quindi negata anche questa via. A quel punto chiamo una delle strutture della zona, e già alla prima telefonata al front office, per chiedere se fosse possibile effettuare l’isterosuzione, mi sento rispondere da un’operatrice: “Eccone un’altra con i terminoni”. Ribatto spiegando i miei problemi allergici. Iniziano quindi a chiedermi l’età e tutte le informazioni necessarie; poi vengo messa in attesa, ma l’operatrice dimentica di staccare la linea, e la sento chiedere ai colleghi “Ma questa a 25 anni non lo sa che esiste la pillola?”. Una volta ripresa la chiamata, mi dice che “non sa di cosa io stia parlando”.

Rimango perplessa: nonostante quella che io richiedo possa magari essere una procedura atipica, che non si esegue spesso, mi aspetterei comunque di potermi affidare a una qualche sorta di professionalità nel momento in cui contatto la struttura. L’operatrice mi dice di presentarmi comunque la settimana successiva, per la prima ecografia. Ricordo che allora mi sono sentita in colpa per il fatto di trovarmi in quella situazione, quando in realtà stavo solo cercando di risolvere quello che per me era un problema che sarebbe potuto capitare a tutte. Chiamo mia madre e le confesso di non sentirmi tranquilla nel dovermi recare in quella struttura. Su suo consiglio contatto (sempre per via pubblica) una ginecologa del Casentino, che mi dice che potrei andare da lei il 16, giorno in cui sarebbe rientrata dalle ferie estive.

Scelgo quindi di aspettare il suo ritorno, e nell’occasione decido di fare qualche giorno di vacanza anch’io. Durante quel periodo sto malissimo, vomito, ho svenimenti, non mangio: è come se il mio corpo stesse rigettando un organo, non sono mai stata così male. Il 16 mi reco alla visita con il mio fidanzato, faccio l’ecografia e la ginecologa mi dice che sono di circa un mese. Le due precedenti IVG le avevo eseguite sempre insieme alla stessa dottoressa presso una struttura della zona: erano state molto più “agili”, probabilmente poiché farmacologiche, e forse anche perché ero minorenne e l’iter burocratico lo aveva principalmente gestito e affrontato mia madre. Devo dire che in quei due casi le esperienze col consultorio erano state comunque molto positive. La dottoressa mi ricorda tuttavia che in questa sede, il tipo di intervento che adesso richiedo, non può essere eseguito. Contatta quindi un’altra delle principali strutture sanitarie della zona, chiedendo se sia possibile fissare una visita con l’anestesista; il primo posto libero è il 20 Agosto. Vado alla visita: ECG, analisi, tampone e tutto il necessario. Continuo a stare male.

Il 24 Agosto mi danno l’appuntamento per l’operazione. Arrivo con il mio ragazzo alle 8 di mattina, mi dicono che faremo tutto in day hospital e avviano tutte le procedure. Lì accade un altro episodio, che io in quel momento vivo come l’ennesimo rifiuto della società verso di me e quello che sto facendo. Un’operatrice sanitaria viene da me e mi dice “gli accompagnatori non possono stare qui”. Io mi guardo attorno, rispondendo che le altre pazienti presenti in sala sono pressoché tutte accompagnate. Mi viene risposto che “Sì, ma loro sono in gravidanza. Tu sei qui per un’interruzione”. Io non reagisco, probabilmente anche per lo stato psicofisico in cui verso in quel momento. Nessuno dei presenti interviene, una situazione alienante. Credo tuttavia che gli altri non abbiamo nemmeno potuto comprendere ciò che mi è stato detto, né come io possa averlo recepito; penso che quella frase mi abbia ferito in ragione della situazione in cui in quel momento mi trovavo, o almeno è così che ho cercato di spiegarmi la circostanza.

Arriviamo alle 14, e dopo tutti gli esami di routine, un’operatrice viene da me e mi dice che entrambi gli anestesisti sono impegnati in emergenze al Pronto Soccorso, e non si sa quando si libereranno. Mi manda a casa, “ti ricontatteremo noi”. Io credevo sarebbe avvenuto in tempi brevi; invece, arrivata al 30 Agosto, non ho ancora risentito nessuno. Mancano meno di due settimane prima che scada il termine di legge per effettuare l’intervento. Quindi chiamo nuovamente la struttura e spiego che ho necessità di agire in tempi molto brevi. Il 2 Settembre mi richiamano per fissare il ricovero, che avviene l’8 Settembre.»

Qual è e come si svolge il trattamento pre, durante e post intervento? «Entro alle 7 e vengo operata intorno alle 15, sempre per mancanza di anestesisti e relativa scarsità di turni, avendo il Reparto Traumi e il Pronto Soccorso la precedenza. Ricordo che quel giorno non vengo fatta accomodare nel letto prima delle 10, il tutto senza poter mangiare né bere; mia madre si lamenta col personale riguardo i tempi di attesa. Le rispondono “Che fretta avete? Tanto ormai…”.

Nella mia esperienza ho percepito comunque in tante persone questo distacco, non so se dovuto al fatto che per loro queste siano situazioni quotidiane di lavoro, e che tutto diventi quasi un automatismo, se sia per via di un ambiente poco sano e sereno, o se davvero ci sia uno stigma verso le donne che abortiscono. Io credo comunque che si tratti principalmente di un problema di reparto, perché in sala operatoria, al contrario, ho incontrato solo persone altamente qualificate e professionali: dall’anestesista, al ginecologo, all’ostetrica. Si percepisce fortemente il gap tra le due situazioni: dal personale medico mi sono sentita trattata da paziente, da loro mi sono sentita trattata “come una merda” (letterale), non so per quale ragione. Emblematico anche il fatto che i medici abbiano sempre parlato di “embrione” o “cellula” durante le varie procedure, mentre in reparto dicevano “bambino”.

L’operazione dura in totale un’oretta tra sedazione e anestesia locale, intervento (di pochi minuti, e sempre monitorato dall’anestesista) e rientro in reparto. Il kit operatorio di cui vengo dotata consiste in un assorbente grande che sarebbe dovuto durare tre giorni (e che io ho riempito di sangue in poco più di un’ora), di un blister con due antidolorifici e delle salviette, nient’altro. Dopo pochissimo tempo mi viene immessa la spirale (IUD), procedura che solitamente non viene effettuata nell’immediato. Mi chiedono il consenso, io rispondo affermativamente perché è uno dei pochissimi metodi contraccettivi che posso tentare di utilizzare, avendo problemi ad assumere ormoni. Nonostante la mia ginecologa mi consigli di non applicarla subito, io (a posteriori, purtroppo) mi affido a ciò che mi viene detto in struttura, e me la faccio inserire. La spirale mi causa uno sbalzo ormonale molto forte, con conseguente formazione di cisti e sanguinamenti per i tre mesi successivi. Nonostante ci sia un concreto rischio di emorragia, la mia dottoressa decide quindi di asportarla. Non credo di aver mai provato tanto dolore. Inizio ad assumere la “minipillola” (un contraccettivo privo di estrogeni e a basso dosaggio, ndr) subito dopo, e fortunatamente, nell’arco di un anno, la situazione torna normale, senza effetti collaterali significativi. L’applicazione della spirale capisco sia stata eseguita con un’intenzione positiva, ma probabilmente è stato troppo precoce farlo subito dopo l’intervento.»

In tutto il percorso, ti viene mai offerta assistenza psicologica? «No, mai. L’unica cosa che mi viene chiesta nei vari questionari è se stia già intraprendendo un percorso di terapia. Ma non ricordo mi venga proposto attivamente, nonostante in reparto lo sportello sia presente. Forse avrei dovuto chiederlo io, espressamente e personalmente, ma non saprei dirlo.»

In qualità di cittadina, con il diritto alla salute e all’assistenza del Servizio Sanitario Nazionale che ne consegue, ti sei sentita sufficientemente tutelata? I servizi hanno incontrato le tue aspettative? «Le persone che mi avrebbero dovuto tutelare in quel momento erano le stesse che in qualche modo mi stavano “facendo male”, passami il termine. Una paziente che abortisce è una paziente diversa dagli altri. Ha bisogno di essere supportata nella scelta; un supporto che non c’è, perché quando non c’è il biasimo, c’è la minimizzazione della situazione (almeno nella mia esperienza, e in relazione a quel determinato ambiente sanitario).

La sensazione che ho avuto è stata di distinzione tra categoria A e categoria B. Fortunatamente, se non altro, non mi sono mai ritrovata a venir messa in discussione nella scelta, né ho incontrato qualcuno che abbia cercato di persuadermi a cambiare idea. Nello specifico trovo che si debba ripensare e ricostruire da zero proprio tutto questo, il percorso di accoglienza e accettazione delle pazienti. Nel complesso l’esperienza è stata come me l’aspettavo, perché mi ero informata prima a riguardo, e le attese erano pari a zero. Va poi considerato il mio stato psicofisico di quel periodo, sempre in bilico tra l’incazzato e il nauseato, perché per ogni passo che facevo, il successivo mi veniva impedito o comunque ostacolato, il processo è stato molto macchinoso. L’intervento in sé è andato bene, è stato tutto il contesto a essere difficile da affrontare. E penso che sia la stessa esperienza capitata a molte donne; le altre mie compagne di ricovero, con cui mi sono confrontata al tempo, hanno essenzialmente vissuto lo stesso.»

L’aborto è insindacabilmente un diritto e una questione prettamente femminile. Ma è doveroso sottolineare e non sottovalutare il ruolo che nel relativo iter ricoprono determinate persone, che stanno vicino a chi abortisce. Ci riferiamo in particolare a partner, compagni o mariti, che – pur se indirettamente – vengono comunque toccati e coinvolti dalle circostanze. E’ per questo che decido di fare una domanda anche a S., che al tempo ha 27 anni, è da cinque il fidanzato di G. e la accompagna lungo tutto il percorso di IVG.

Come hai vissuto la procedura di accompagnamento? «Io ho principalmente “fatto da spalla” a lei, non interfacciandomi direttamente quasi mai con gli operatori, se non per alcune domande di natura personale che mi sono state fatte, ad esempio se lo volessimo tenere o no. Le mie impressioni si allineano complessivamente a quelle di G. Talvolta sono stato lasciato anche fuori dalle strutture – non ho potuto presenziare all’ecografia, per esempio – forse anche per via della situazione Covid. Da esterno ho vissuto la vicenda in modo diverso, senza coinvolgimento diretto, ma principalmente con una preoccupazione verso di lei. La mia impressione è stata che ci fosse in generale poco interesse da parte del personale. Onestamente i continui rimandi e i tempi stretti sono stati la mia principale causa di ansia e frustrazione (solo pochissimi giorni in più e non sarebbe stato più possibile eseguire l’intervento per scadenza dei termini, ndr). Devo dire sinceramente che molte cose ho anche tentato di rimuoverle mentalmente.»

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