di Matteo Bertelli – Quante volte, davanti alle nostre case o lungo le nostre vie, abbiamo visto passare ragazzi o uomini (perlopiù provenienti dall’Africa) con in spalle zaini enormi, pieni di merce a basso costo, intenti a racimolare qualche soldo nella sfiaccante e spesso denigrante attività dei “vucumprà”? Magari guardandoli con senso di superiorità, chiudendo loro in faccia le porte o non aprendole nemmeno, accompagnati da una paura alimentata da chissà quale strana diceria.
Per puro caso, a sedere in una panchina, sfinito da una giornata di lavoro sotto questo cocente sole casentinese, uno di questi ragazzi ha voluto raccontarci la sua storia; a grandi linee, senza lasciar trapelare troppo di sé, ma con l’intento di mostrarci quanto sia pessima la vita che conduce e quanto la colpa sia in gran parte di gente con pochi, o del tutto priva, di scrupoli nei confronti della vita altrui. Una storia uguale a quelle che tanti media, con scopi diversi, ci hanno raccontato; una vita molto simile a quelle che ci vengono mostrate nei servizi dei telegiornali riguardanti Lampedusa, Idomeni o simili. Non una novità ma, posso assicurarlo, prendendomi le responsabilità dell’uso della prima persona, una storia che fa riflettere davvero, senza filtri, senza manipolazioni mediatiche; un racconto uscito dalla bocca di chi l’ha vissuto, un racconto che può essere generalizzato a così tanti altri casi che al solo pensarci uno dovrebbe provare, come minimo, un po’ di pena.
Benjamin è un nigeriano di quasi trent’anni, arrivato in Italia pochi anni fa a bordo di uno di quei tristi “barconi della speranza” di cui tanto sentiamo parlare alla tv; dopo un viaggio uguale a quello di tanti altri, ammassato in un gommone in bilico tra il galleggiare o l’affondare, è approdato in Italia alla ricerca di un lavoro. “Sono arrivato in Italia” – ci dice in un italiano stentato – “senza sapere una parola, parlando francese e un po’ di inglese, per cercare di farmi una vita migliore di quella che avevo in Nigeria. Ho lasciato tutti là, famiglia, amici, fidanzata. Non è un buon posto dove vivere, non se non hai un bel po’ di soldi. Non volevo fermarmi qua in Italia ma ho trovato tutto bloccato alle frontiere e mi sono dovuto stabilire a Roma, dove ho cercato un lavoro, all’inizio inutilmente.”
Non è facile per un italiano trovare di cosa sopravvivere al momento, figuriamoci per un immigrato clandestino, con documenti falsi (creati appositamente per avere quasi dieci anni in meno di quelli che aveva appena pochi giorni prima, quando partiva dall’Egitto).
Evitando accuratamente di essere riconosciuto come clandestino, si è diretto a Roma per evitare i numerosi campi profughi situati nelle coste del sud Italia, più colpite dal fenomeno migratorio, e, una volta arrivato nella capitale, ha fatto conoscenza di un uomo affabile che, “gentilmente”, gli ha offerto quello che ai suoi occhi doveva essere il lavoro migliore per un ragazzo nigeriano fresco di laurea, ragazzo che non ha potuto non cogliere al volo la possibilità remota di poter guadagnare qualcosa per vivere.
“Il capo (ciò di più simile a un datore di lavoro, ndr) sta a Roma e passa col suo furgone a prenderci tutte le settimane. Ci carica su, ci dà uno zaino con la merce e ci porta in zone diverse d’Italia; ho visto Roma, Bologna e Firenze, adesso mi porta sempre qua in questa zona. Non ho una casa, dormo dove capita, spesso sulle panchine o sui marciapiedi. E il guadagno? Tutto al “capo”. Non vedo un euro, vivo di quello che trovo e sono stato educato a non rubare, ma mi sembra che a essere derubato sia io…”
Ogni settimana il suo datore di lavoro (giusto per dargli un nome che suoni meglio di strozzino o sfruttatore) torna con il suo furgone a prendere i guadagni di Benjamin e di tutti gli altri ragazzi sparsi per la penisola, dà loro nuova merce da vendere, li sprona a fare meglio con urla e insulti, quando non riescono a vendere, e riparte, lasciando loro qualche spicciolo per comprarsi da mangiare e un cellulare per potersi mettere d’accordo sui successivi punti di incontro per non dare troppo nell’occhio. Sono modus operandi talmente abusati che non stupiscono nemmeno più, ma a ben pensarci, il fatto che non ci stupiscano non deve far sì che diventino per noi cose normali.
Non è facile rendere per scritto, trasmettendo la stessa carica emotiva, quello che quel ragazzo ha voluto raccontare, con un sorriso vagante nel pensare a occasioni perse e alla sua laurea completamente inutile e abbandonata nella sua clandestinità. Ma è importante, a mio avviso, capire che anche in piccole realtà come le nostre si nascondono storie dense di dolore e sofferenza come questa, storie di coraggio, storie che non vengono magari nemmeno prese in considerazione a causa del colore della pelle, della difficoltà a parlare bene l’italiano o del lavoro, diciamocelo, poco invidiabile del “vucumprà”.
Perché, per quanto possa sembrare populista un articolo del genere e magari anche di scarsa utilità, di quelli da leggere il titolo e saltare direttamente alla pagina successiva, è bello conoscere di per sé più storie possibili, anche perché è solo conoscendo che è possibile farsi una vera idea, propria su ogni situazione; e per quanto sia una storia lontana, ci tocca direttamente anche nella nostra ristrettissima e chiusissima realtà casentinese, in quanto è qua che vive, e non per sua scelta, ma per scelta di uno scrupolosissimo datore di lavoro senza scrupoli, italianissimo e avido come pochi (o molti) al mondo!
(tratto da CASENTINO2000 | n. 273 | Agosto 2016)