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sabato, 26 Ottobre 2024

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La storia di Eleonora

di Francesca Corsetti – A 23 anni, Eleonora Boschi, di Porrena, è partita alla volta della Tanzania per un progetto di volontariato. Dopo la laurea in Scienze diplomatiche e internazionali a Forlì, spinta dalla voglia di mettersi in gioco e di fare la differenza, Eleonora ha deciso di dedicarsi per oltre dieci mesi a un progetto dell’associazione l’Africa Chiama. In questa intervista, ci racconta il suo viaggio, le sfide incontrate e le lezioni apprese in un’esperienza che le ha cambiato la vita.

Puoi raccontarci un po’ di te? Cosa ti ha spinto a partecipare a un progetto di solidarietà in Tanzania? «Ormai da anni avevo voglia di mettermi in gioco, di viaggiare stando a contatto con le persone e poter dire “conosco questo paese”. Ho deciso di fare domanda per il servizio civile per un progetto in Tanzania con l’Africa Chiama che si occupa di bambini malnutriti e con disabilità. A monte di tutto questo c’è altra esperienza pregressa: già nel 2017, quando ero alle superiori, sono partita per l’anno all’estero in Cina e quello è stato l’inizio di tante scelte di vita che mi hanno portato fino a qua e spero mi porteranno lontano. Una volta tornata, sentivo che il Casentino mi stava un po’ stretto e sentivo la necessità di fare qualcosa per me e per gli altri. Perciò, ho deciso di diventare scout, anche se da grande! Grazie agli scout mi sono messa al servizio degli altri, che è quello che ho deciso di fare in generale nella vita. Nel 2019 ho avuto l’occasione di partire per il Kenya proprio con gli scout e quello è stato il punto di non ritorno: ho sempre avuto una vaga intenzione di voler visitare il continente africano e quella è stata la mia conferma. È stato questo che mi ha portato a scegliere il mio indirizzo di studi, con l’idea di continuare a studiare nell’ambito dei diritti umani e avvicinarmi al mondo della cooperazione».

Puoi spiegare meglio di che tipo di progetto di tratta? «L’Africa Chiama è un’associazione di Fano che ha tre sedi dislocate a Lusaka in Zambia, a Iringa in Tanzania e a Nairobi in Kenya. Qui a Iringa ci sono tre progetti principali, il Centro Sambamba, che in swahili significa “fianco a fianco”, il Centro Kipepeo, che significa “farfalla”, e poi c’è lo school feeding, questo in inglese! Il progetto Sambamba si occupa di bambini con disabilità, offrendo un servizio di riabilitazione su base comunitaria. Abbiamo 5 focal point dislocati nella città di Iringa dove, nei giorni di apertura, le mamme possono incontrare i fisioterapisti e le operatrici, tutti tanzaniani, che svolgono questo servizio. L’obiettivo è che le mamme possano imparare gli esercizi da replicare a casa con il bambino, perché qui sono le mamme ad occuparsi dei figli, specie se con disabilità. È un’idea molto bella proprio perché pone la comunità al centro. Si crea comunità tra le mamme che capiscono che non sono sole. La disabilità in Tanzania non è ancora accettata: si conosce molto poco ed è molto probabile che il bambino venga nascosto, non gli sia offerto alcun servizio, o lo riceva quando è troppo tardi. Oltretutto, la superstizione legata alla stregoneria purtroppo è ancora presente. È a tutti gli effetti un doppio servizio!».

Che attività svolgevi in questi contesti? «Sono un po’ cambiate nel tempo. Nel primo periodo, dato che non conoscevo la lingua, i colleghi o la città, affiancavo i colleghi nelle sedute di fisioterapia, o nelle visite familiari del progetto Kipepeo, che si occupa di bambini con problemi di nutrizione, mentre con il progetto school feeding andavo a cucinare nelle scuole. Con quest’ultimo progetto offriamo due pasti caldi a settimana ai bambini di sei scuole nella provincia di Iringa. Nel momento in cui ho appreso la lingua e ho capito meglio come funzionavano i progetti, ho iniziato a passare più tempo in ufficio, aiutando nella rendicontazione o nella stesura di report. Inoltre, mi sono trovata qua nel momento in cui stavano aprendo tre nuovi focal point. Perciò, mi sono occupata anche di questo: dal reperire il materiale, allo scrivere le lettere agli ospedali, ai training ai genitori, al personale sanitario, ai community volunteers. Quest’ultimi sono figure molto frequenti in Tanzania: si tratta di persone comuni a cui le persone del villaggio si appellano per necessità, e da cui vengono indirizzate verso i vari servizi sanitari presenti nel distretto. Per un po’ la mia attività si è svolta principalmente sul campo, poi anche in fase di progettazione».

Qual è stata la tua prima impressione? Quali sono state le maggiori difficoltà che hai incontrato nell’integrarti con la comunità locale? «Sicuramente la lingua, perché qui non si parla inglese. O meglio, è conosciuto solo da chi ha avuto modo di studiare e non è una grande percentuale. E poi l’essere bianca e donna: all’inizio, per un bel po’ di mesi, mi ha messa in difficoltà. Perché nonostante viva in una città che ha una comunità di bianchi non piccola e siano abituati a vederne che girano per le strade, comunque vieni notata. Inoltre, qui le persone sono molto dirette, non siamo abituati a dire tutto quello che ci passa per la testa all’altro. Questo significa che per strada è molto facile trovare persone che ti gridano “musungu”, che significa occidentale. Non è fatto in maniera cattiva, è semplicemente un modo di fare, è quasi naturale. Oppure, qua si viaggia molto in moto, chiamate “boda boda”, o con le api, chiamate “bajajis”, e gli autisti possono chiederti cinquemila scellini perché hai “il colore dei soldi”, quando il prezzo base è di mille scellini. È stato difficile capire come rispondere a tutto questo, come approcciarsi alle persone».

Quindi hai imparato lo Swahili? «L’associazione ci ha offerto un corso intensivo di Swahili per un mese, perché lavoriamo in un contesto molto rurale, per così dire. Lavoriamo con mamme e bambini di villaggio, che spesso non sanno né leggere né scrivere. Nessuno dei nostri beneficiari o colleghi conosce l’inglese, solo il personale sanitario, perciò all’inizio comunicare con i colleghi stessi è stato molto difficile. Loro sono abituati all’arrivo di nuovi volontari ogni anno, ma è frustrante non potersi esprimere, soprattutto in un contesto lavorativo. Nel momento in cui impari la loro lingua, il modo che hanno i tanzaniani di approcciarsi cambia completamente»

Puoi raccontare un episodio particolarmente significativo (positivo o negativo) che ha segnato il tuo soggiorno in Tanzania? «C’è un episodio negativo che, però, mi ha dato la forza per accettare il contesto in cui ero. Abbiamo un focal point all’interno di una scuola nella quale c’è una classe speciale per bambini con disabilità sopra i 5 anni. La classe è di circa quaranta bambini con disabilità diverse, che non sono autonomi. Però, questi ragazzi sono abbandonati a loro stessi perché gli insegnanti non sono sempre presenti, così molto spesso vengono da noi in cerca di attenzione e interazione. Solo che, vedendoli singolarmente, riesci a metabolizzare pian piano, caso per caso. Trovarseli attorno tutti insieme è stato travolgente. Dopo quella giornata mi sono imposta di accettare la situazione perché non posso trovarmi emotivamente coinvolta ogni volta che mi interfaccio con una situazione particolarmente delicata. Ma ci sono stati anche tantissimi casi positivi. Mi viene in mente una bimba che aveva poco più di un anno: era gravemente sottopeso, gattonava a malapena e non parlava. Quando sono tornata a farle visita a casa sua ad aprile, l’ho vista venirmi incontro correndo con un grande sorriso e ha iniziato a parlare. Mi sono commossa nel vederla così, perché era passato tanto tempo, e constatare un miglioramento così evidente è stata una gioia immensa».

Ripensando a quando hai iniziato, credi che fossi pronta per affrontare tutte queste sfide, soprattutto emotive? Che consiglio daresti a chi vorrebbe fare la stessa esperienza? «Devi essere pronto a imparare tutto da capo, a comportarti come un bimbo che sta imparando per la prima volta a parlare, a camminare e a mangiare perché è tutto diverso da come lo si può anche immaginare. Io credo che a me abbia aiutato tanto vivere in Cina, perché anche lì per molte cose mi domandavo “ma davvero qua funziona così?”. Oggi ancora continuo a imparare, dopo dieci mesi che sono qua. L’unico consiglio, che può suonare banale dall’esterno, è di arrivare qua senza pregiudizi e senza aspettative. Astenersi dal giudizio è una cosa necessaria, ma che allo stesso tempo ti mette molto in difficoltà. Stare zitta nel momento in cui vedi la maestra che picchia un bambino, o una mamma che va a fare la spesa e lascia il bimbo di tre mesi alla vicina, o banalmente il modo di approcciarsi alle persone: sono tutte cose che si imparano solo stando qua. Io non credo di essere mai stata pronta, perché non si è mai pronti a immergersi in un contesto così tanto diverso, però con la voglia di fare si supera tutto».

E con un sorriso, a pochi giorni dal suo rientro in Italia, Eleonora conclude: «la Tanzania è bellissima, ti senti travolta costantemente da un sacco di amore».

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