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domenica, 22 Dicembre 2024

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Le piante invernali e il tempo della lentezza

di Marco Roselli – Dicembre è il mese dei giorni corti, della luce che corre inesorabilmente verso il suo minimo annuale. Le ombre si allungano e i paesi, anche se rinfrancati dai pubblici lampioni, mostrano angoli cupi, tra le mura dei centri storici che incontrano il sole, se non offuscato dalla nebbie, per poche ore prima che sia di nuovo sera. Le finestre delle abitazioni sono accese da luci artificiali oppure palpitano dei fuochi dei caminetti accesi, che con le loro fiamme vive affascinano le menti dagli albori dell’umanità. Le vegetazioni dei giardini sono al loro minimo, eppure al massimo di una meravigliosa caducità variopinta di cromatismi caldi, che attraversano tutto lo spettro della luce tranne quello del verde, che in questo mese finisce di dissolversi tra le brume dell’autunno e i primi freddi dell’inverno. Qualche ombrello aperto sopra un viale alberato tappezzato di foglie e fronde nude, che spiovono gocce grosse, che lottano contro la gravità, ma che presto o tardi si uniranno in rivoli muti sotto un cielo plumbeo.

La fortuna dell’uomo è la presenza, tra le innumerevoli specie vegetali, dei sempreverdi, siano questi alberi o arbusti, che con le loro forme mantengono viva la speranza di una nuova primavera oltre ad essere utili, come nel caso dell’olivo, forse la più nobile tra tutte le piante. Dicembre è quindi il mese dell’attesa, un periodo in cui la mente e il nostro cuore devono rallentare – proprio come fa la natura – per dare tempo alla nostra anima di raggiungerci, dopo aver rincorso tutti gli affanni del quotidiano, spesso senza arrivare da nessuna parte. Gli antichi, dai romani ai celti, dai greci ai vichinghi, attribuivano alle piante poteri magici e significati di immortalità, proprio perché alcune di esse restavano verdi nonostante la crudezza invernale spegnesse molte vite. E’ questo il caso, ad esempio, dell’abete caucasico, di cui narreremo di seguito, ma possiamo contribuire a nutrire il nostro io profondo con molte altre piante o parti di esse, cercando di godere a pieno di un periodo che la natura ha progettato proprio per farci capire che l’oscurità non è necessariamente buia e che la lentezza del nostro agire è il successo più importante che possiamo conseguire.

Rosa di Natale (Helleborus niger) Helleborus niger (Elleboro), comunemente nota come elleboro nero, è una pianta erbacea velenosa, appartenente alla famiglia delle Ranunculaceae, detto anche rosa di Natale, perché i suoi fiori bianchi dalle antere dorate sbocciano d’inverno da dicembre in poi, quasi a simboleggiare con i loro colori l’alba del solstizio invernale e l’oro del sole nuovo, del sole «bambino», destinato a crescere sull’orizzonte. Sull’elleboro si racconta che quando i Re Magi giunsero alla grotta di Betlemme portando i doni destinati al Salvatore si accorsero di una pastorella che, vedendo l’oro abbagliante e i profumati aromi iniziò a disperarsi, perché non aveva nulla da offrire al neonato. La ragazza scoppiò in lacrime ma quando vide sbocciare fra la neve alcuni fiori bianchi dalle antere dorate, capì che quelle rose di Natale erano un dono del cielo per il bambino Gesù. Secondo un mito greco, Melampo, l’uomo dai Piedi Neri, che capiva il linguaggio degli animali ed era capace di purificare i malati restituendo loro la salute, guarì dalla follia le figlie di Preto, re di Tirinto, mescolando l’elleboro all’acqua della fonte dov’erano solite bere, così che la piantina venne ritenuta nei secoli un efficace rimedio contro le malattie mentali. Grazie a quella credenza il fiore evocò anche un modo proverbiale, «Ha bisogno dell’elleboro», per indicare un matto. Effettivamente il suo rizoma contiene un glucoside, l’elleborina, che grazie alle sue proprietà narcotiche può essere usato nelle dosi prescritte e sotto controllo medico per calmare chi è in preda a crisi di quel genere. Una volta il rizoma veniva consigliato anche come purgativo e vermifugo; ora invece non lo si usa più perché i suoi glucosidi possono provocare vomito, sonnolenza, collasso e persino la morte. Quindi è una pianta bella da vedere senza che se ne facciano altri usi! Fino ai primi del Novecento era una pianta molto diffusa, tanto da essere considerata la regina nei giardini d’inverno di tutta Europa. Un’altra specie di elleboro, Helleborus viridis, che ha foglie decidue e fiori a coppa giallo-verdi, è detta «erba nocca» in Toscana dove secondo un’antica tradizione contadina viene osservata attentamente perché la si considera un ottimo oroscopo per l’agricoltura: il raccolto sarà abbondante se ha quattro ciuffi, mediocre con tre, pessimo con due.

Albero di Natale Non è la prima volta che parliamo di alberi di Natale su questa testata ma dato che il Casentino resta la zona più importante d’Italia nella produzione di abeti ad uso natalizio, mi pare doveroso oltre che opportuno promuovere e difendere una coltivazione così importante, non solo per i produttori delle zone montane ma anche per il servizio che questi rendono alla collettività in termini di protezione ambientale. In questo numero mi fa piacere portare alla conoscenza del pubblico un particolare tipo di abete, quello del Caucaso, il quale si posiziona in cima a quelli più belli che si possano trovare in natura e in vivaio.

Abies normanniana Abete del Caucaso Questo abete è anche conosciuto come abete del Caucaso o di Crimea. Il suo areale di vegetazione comprende il Caucaso occidentale e l’Armenia dove forma foreste pure a quote comprese fra 400 e 2000 metri s.l.m. Si tratta di una specie molto decorativa che può raggiungere anche altezze di 30 metri e i 3 metri di circonferenza; la chioma ha forma piramidale quasi perfetta e di color verde cupo lucente è più compatta di quella dell’abete bianco. Questa specie ha una estetica impareggiabile. I palchi disposti a spirale con portamento piramidale creano una forma geometrica perfetta e c’è da chiedersi come sia possibile per la natura dirigere una simile sinfonia se non in presenza di una coscienza che ancora non conosciamo. Si tratta di una pianta in grado di sopravvivere tranquillamente oltre il periodo delle feste natalizie se collocata in un vaso adeguato alle sue dimensioni e in una zona ombrosa del giardino. Io stesso ne ho conservati due esemplari semplicemente effettuando un rinvaso con il 30% di sabbia grossa + il 40% di buona terra da giardino e compost da raccolta differenziata. Chiaramente il vaso e quindi la miscela sono stati scelti di proporzioni commisurate alle dimensioni degli alberi (non si può pretendere che sopravvivano in un vaso troppo piccolo dopo essere stati attaccati ai termosifoni per tutto il periodo delle feste). Il suo accrescimento è molto più lento del più noto abete rosso (Picea abies) e le cure in vivaio molto più accurate, fatti che giustificano un maggior costo di acquisto. In diverse culture antiche ha la funzione di collegamento tra terra e cielo e viceversa. E’ l’albero che porta le forze del cosmo nella terra, l’albero della luce. Nella mitologia scandinava per via delle sue foglie sempre verdi era considerato l’albero della forza vitale, dell’immortalità, dell’energia, della guarigione. Per la sua abbondante produzione di pigne e semi non sorprende che fosse considerato simbolo di fertilità. Albero legato al solstizio d’inverno. Nel Medioevo, sempre nei paesi scandinavi, durante le feste solstiziali ci si recava nel bosco per tagliare un abete che veniva decorato con ghirlande, uova dipinte e dolciumi. L’uso di decorare l’abete è giunto fino a noi ed è caratteristico del periodo Natalizio. Tuttavia era considerato albero della luce molto prima che entrasse nelle case come albero di Natale illuminato da candele.

Vischio Il vischio è una pianta sempreverde parassita di numerosi alberi ospiti, in particolare conifere e alcune latifoglie (es. pioppi, salici, aceri, betulle, tigli, meli, Robinia e più raramente Prunus). Se ne può notare la presenza specialmente nei boschi caduchi in inverno, quando i suoi cespugli cresciuti sui tronchi e sui rami sono evidenziati dalla perdita delle foglie della pianta che li ospita. La foglia verde del vischio indica la presenza di clorofilla, quindi questa pianta è in grado di compiere la fotosintesi. Tuttavia, pur essendo in grado di sintetizzare gli zuccheri sottrae acqua, sali minerali e azoto dalla pianta ospite. Alla base del fusto principale sono prodotti cordoni verdi che penetrano all’interno della corteccia dell’albero, generando delle propaggini che si allungano fino al tessuto conduttore. Le sue bacche, trasportate e disperse dagli uccelli (che se ne cibano in inverno), si insediano nelle intercapedini di un ramo di una pianta e i semi iniziano a germinare. Allora, attraverso un cono di penetrazione, ha inizio la formazione di un piccolo tronco e lo sviluppo del vischio.

Mitologia e curiosità del Vischio Al vischio sono riconducibili leggende e tradizioni molto antiche: per le popolazioni celtiche era, assieme alla quercia, considerato pianta sacra e dono degli dei. Secondo una leggenda nordica teneva lontane disgrazie e malattie. Il succo delle bacche veniva usato per preparare colle usate nell’uccellagione. A questo uso fanno riferimento alcuni modi di dire entrati nel linguaggio corrente: può essere vischiosa una sostanza appiccicosa, mentre non è gradevole rimanere invischiati in certe situazioni. Sebbene sia diffusa l’idea del vischio come pianta ornamentale, il suo uso si estende anche all’erboristeria e alla fitoterapia. Le bacche sono nocive per l’uomo, innocue e assai gradite agli uccelli. La sua tossicità, provocata dalla presenza di viscumina, non risiede solo nelle bacche, ma anche nel resto della pianta. Secondo una leggenda cristiana, in principio il vischio era un albero e fu con il suo legno che si costruì la croce su cui morì Gesù.

Solstizio d’inverno Purtroppo il periodo del solstizio d’inverno non si celebra più come una volta. Un tempo c’era la consapevolezza che dicembre fosse un mese di meditazione e riposo, dove il lavoro dei campi o nelle foreste seguiva il normale divenire della stagione fredda. Le persone potevano meditare su tutto quello che avevano passato nei mesi che si lasciavano alle spalle, facevano il resoconto dei raccolti, se questi erano stati abbondanti o scarsi, lasciando spazio alla percezione che non tutto potesse essere spiegato con le leggi umane e che la natura dovesse essere semplicemente accettata e non dominata. Sappiamo perfettamente tutto quello che ci manca ma non riusciamo a ricordare ciò che abbiamo, per questo ci lasciamo angosciare dal pacco di Amazon che non è ancora arrivato.

Is this the world we created? E’ questo il mondo che abbiamo creato? Cantavano i Queen e forse anche tutto quello che non torna può essere corretto dall’atteggiamento del singolo, aggiungo io. La cultura moderna insegna a fuggire le prerogative profonde di questo momento. Luci, cibo oltre quello che un corpo può tollerare, spese oltre il necessario per sostenere un consumismo che ci costerà ben più del denaro. Eppure, il segnale naturale per andare verso l’interno, come quasi tutte le creature stanno facendo sarebbe forte, ma siamo indotti a credere che l’inverno sia duro e vada addolcito ad ogni costo con molti più lustrini di quelli che possiamo sostenere. In realtà l’inverno sarebbe gentile, vorrebbe indicarci la strada verso il nostro io interiore, verso un periodo di pace e riflessione, abbracciando l’oscurità, perdonando e amando. Infine però, proprio quando l’oscurità sembrerà avere la meglio sul mondo, ricomincerà il nuovo anno. Allora, come un seme piantato nel profondo della terra risorgeremo tutti con rinnovata energia, ancora una volta, per danzare alla luce del sole, nella consapevolezza che non esiste notte cui non segua il giorno.

“L’inverno porta via le distrazioni, il fermento e ci presenta il momento perfetto per riposare e ritirarsi in un grembo come l’amore, portando fuoco e luce nel nostro cuore.” La vita è un dono; un felice inverno a tutti voi.

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