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sabato, 21 Dicembre 2024

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Luigi Giannini, un medico di famiglia

Ascoltare il Dott. Luigi Giannini mentre ricorda eventi, persone e particolari della sua lunga carriera di medico di medicina generale a Stia permette di ripercorrere i cambiamenti avvenuti nel Sistema Sanitario Nazionale, istituito proprio pochi anni prima del conseguimento della sua laurea.

«Ho frequentato il Liceo Classico ad Arezzo e al momento di scegliere il percorso di studi all’università ero un po’ incerto tra legge e medicina, ma poi ho scelto di fare medicina a Firenze. Nella mia classe, nel 1973 quando abbiamo terminato la terza liceo, in 7 abbiamo scelto di fare medicina e tutti siamo riusciti ad arrivare al termine degli studi. Non so se c’era un virus o altro che ci aveva colpito… Quando ho scelto non c’erano limitazioni di accesso, ricordo che nelle aule dove si andava a fare lezione non c’era mai posto, quella di anatomia patologica era enorme, ma si era costretti a stare in piedi. Anche quando ci siamo laureati, nel 1981, eravamo tanti e all’inizio della carriera «si litigava» per fare un turno di guardia medica, mentre adesso non si trova nessuno… «si litigava» anche per fare qualche sostituzione.

Eravamo tutti già un po’ avanti con l’età e andare a chiedere i soldi in casa non era piacevole. Io poi avevo perso mio padre, c’erano gli altri fratelli che ancora studiavano e non sono stati anni facili da affrontare. A quel tempo poi l’elevato numero di medici complicava anche l’accesso alla scuola di specializzazione, reso già difficile dalla presenza allora di tanti «baroni» che orientavano gli accessi ai pochi posti disponibili. Così, nonostante l’internato fatto per molti anni al Meyer di Firenze, non riuscivo mai ad entrare alla specializzazione di pediatria che avrei voluto frequentare. Alla fine mi dissero che a Siena c’era un professore molto severo ma a cui importava solo se dimostravi di sapere, andai quindi a sostenere l’esame di ammissione a Siena e lo superai con molta soddisfazione. Così mi sono ritrovato a fare la guardia medica la notte e alle 8 a salire in auto per raggiungere la scuola a Siena con ritorno nel primo pomeriggio. Era il 1983 e la scuola prevedeva quattro anni di studio.

Quando frequentavo il terzo anno della scuola di specializzazione il medico di Stia, il Dott. Roggi, che poi è anche stato sindaco di Talla, lasciò il posto dopo aver superato il concorso di dirigente medico all’INAIL. I turni di guardia medica, le sostituzioni e la scuola di specializzazione mi permisero di arrivare primo al successivo concorso. Diventai così medico di medicina generale a Stia, ma avevo ancora la scuola da concludere. Fui costretto a scegliere, dopo aver comunque concluso il terzo anno della scuola, e considerato che ero già sposato, con un figlio e comunque nel mio paese scelsi di fare il medico, rimanendo comunque iscritto alla scuola.

Nel giro di un anno riuscì ad aumentare il numero dei pazienti da 1.000 fino al massimale di 1.500, e sono rimasto sempre a quel livello. Per concludere la specializzazione andai a parlare con un mio vecchio professore di pediatria al Meyer, che accettò il mio nuovo trasferimento da Siena a Firenze, dove non c’era la frequenza obbligatoria. Alla fine ho sostenuto l’esame e così sono riuscito a concludere anche il quarto anno di pediatria e conseguire il diploma di specializzazione a cui tenevo tantissimo. A questo punto una nuova scelta di vita, ma avevo già 1.500 assistiti a Stia mentre il posto di pediatra era previsto solo nel comune dove nascevano più di 500 bambini, quindi in Casentino solo a Bibbiena, ma era già occupato. In seguito, per superare questa situazione insostenibile, sono stati considerati più comuni insieme nella stessa zona per raggiungere il limite previsto e avere altri due posti di pediatra. In quel momento mi cercarono, ma ormai avevo già messo le radici a Stia e ho tenuto il posto di medico di medicina generale, anche se con qualche discussione in famiglia».

Questo il percorso che le ha permesso di diventare medico, poi ci sono i lunghi anni in cui ha esercitato la professione, iniziata più o meno quando è stato istituto, con la Legge 833/1978, il Sistema Sanitario Nazionale… «Nel 1985, quando sono entrato io, era garantito tutto a tutti. Nelle prescrizioni non c’erano limiti e molti farmaci venivano sprecati. Qui in Casentino c’era la ASL 21 con una sua specifica organizzazione e un numero di dipendenti notevole. Scherzando si diceva che c’erano più impiegati che medici all’ospedale. Era una piccola Repubblica autonoma e indipendente dove avevamo tutto. La sanità privata non si sapeva cosa fosse, c’era un laboratorio di analisi ad Arezzo, ma non credo che i miei pazienti lo abbiano mai utilizzato. C’era anche meno richiesta medica, si andava dal dottore proprio quando era necessario. Poi con il tempo la sanità ha gradualmente perso dei pezzi, ogni anno ha iniziato ad essere peggiore del precedente. Veniva chiuso un servizio, non trovavi più l’impiegato all’ufficio perché era stato spostato ad Arezzo. Piano piano c’è stata una diminuzione delle prestazioni e, invece, un aumento della burocrazia. È diminuito il servizio pubblico e per avere un esame in tempi ragionevoli bisognava insistere… l’alternativa è diventata il privato…».

Ma tornando indietro nel tempo come era il lavoro del medico nei primi anni della sua carriera? «Il medico di campagna era veramente il medico di famiglia, ricordo due persone anziane che mi portavano la denuncia dei redditi perché la controllassi, per dire il rapporto che si creava. Adesso è diverso, c’è sempre molta umanità, ma forse manca quel di più che ti faceva essere davvero in quel momento parte della famiglia. Non c’era il servizio del 118, ma solo la guardia medica che era presente dalle 14 del pomeriggio del sabato fino alle 8 del lunedì mattina e tutte le notti. Noi medici quindi lavoravamo anche la mattina del sabato e poteva succedere di andare a fare qualche visita il sabato pomeriggio… Il mio record è di 32 visite in un giorno per un’epidemia influenzale. Poi, non avendo il sostituto, è capitato che fosse mia moglie ad accompagnarmi in macchina a fare la visita e io, magari con 38 di febbre, vedevo qualcuno che stava meglio di me. Anche per le visite in ambulatorio non c’erano limiti così a volte iniziavo alle dieci e andavo avanti per ore, vedendo persone che avevano già pranzato e portavano l’odore del caffè o del sugo appena mangiato. Senza il 118 ad ogni emergenza dovevo partire, anche se era orario di ambulatorio, verificavo la situazione e poi se era necessario chiamavo l’ambulanza, la aspettavo e più volte è capitato che ho aiutato a portare la barella. Questa era la vita del medico di campagna di una volta, si partiva con la borsa, dove non c’era molto, lo stetoscopio e l’apparecchio per misurare la pressione, non c’erano tutte le «diavolerie moderne»».

In questo contesto cosa spingeva in quel momento a scegliere di fare il medico? «Io avevo un’idea romantica della figura del medico, a quei tempi sembrava fosse tutto possibile, c’erano le prime grandi scoperte scientifiche, iniziavano le prime cure per i tumori, tanto che pensavo che una volta arrivato a 60 o 70 anni sarei potuto stare tranquillo perché nessuno sarebbe più morto di tumore. Io ho fatto il medico di medicina generale e ho lasciato la pediatria in ospedale perché mi piaceva la medicina fatta sul territorio, mi piaceva stare con la gente e ho sempre socializzato volentieri. Si andava a casa delle persone e poteva capitare che la notte venissero a suonare il campanello di casa, in quei momenti non potevi dire di no e si partiva. Quella però era la medicina che mi piaceva fare».

Ci sono cambiamenti importanti che sono intervenuti nell’organizzazione del suo lavoro? «Un cambiamento importante che abbiamo introdotto noi medici dei Comuni di Pratovecchio e di Stia è stata la costituzione della medicina di gruppo nel 2001. È stato uno dei due primi esempi in provincia di Arezzo. Ci eravamo resi conto che, lavorando da soli, non riuscivamo neppure ad avere la possibilità di fare le ferie, perché avevamo l’obbligo di trovare un sostituto in caso di assenza. Per questa scelta ci hanno portato come esempio in vari congressi ed è andata avanti fino al’apertura nel 2019 della Casa della Salute, che poi non ha rappresentato altro che la normale evoluzione di quella organizzazione. È stato molto faticoso farla nascere ma alla fine è stata aperta con risultati penso positivi, sia per i medici che per la popolazione, anche se adesso la situazione è diventata un po’ più complessa. Purtroppo i finanziamenti che anni fa ci hanno permesso di aprire e di far funzionare la struttura non sono aumentati e la scarsità di risorse rischia di non permettere di offrire tutto quanto sarebbe previsto e necessario».

Una lunga carriera, una responsabilità importante, ci sono state anche esperienze negative? «A volte ho provato dispiacere perché non ho potuto avere come mio paziente qualcuno che avrebbe voluto scegliermi a causa del limite imposto dal numero massimo di assistiti. Essendo nato a Stia conosco tante persone ma non è stato possibile curare tutti. Più sgradevole ricordare il caso di una persona che, negli anni in cui sono iniziati ad arrivare i primi cittadini stranieri da Paesi dell’Europa dell’est o da altri continenti, un giorno entrando in ambulatorio ad alta voce disse «Io non posso stare in sala d’aspetto con questi qui». Non ebbi dubbi e senza tanti giri di parole lo invitai a cercarsi un altro medico. Allo stesso modo mi causò una forte indignazione il caso di un’altra persona che, durante l’epidemia di Covid19, in presenza delle varie prescrizioni, rifiutò di indossare la mascherina gridandomi «Lei è un servo dell’industria farmaceutica». Anche quella volta mi arrabbiai veramente per un comportamento assurdo manifestato in un momento così difficile…».

Quel momento dei 39 anni trascorsi nel ruolo di medico è stato forse il più complicato e pericoloso… «L’esperienza del Covid19 è stata pesante, i primi tempi siamo stati lasciati da soli, per mesi non abbiamo avuto neppure le mascherine. Nonostante questo in Casa della Salute siamo riusciti a non chiudere neppure un giorno il servizio per i pazienti, anche grazie all’aiuto di molte associazioni del paese, dalla Misericordia, all’Associazione Carabinieri fino alla Croce Rossa che ha garantito il triage all’ingresso della Casa della Salute con la misurazione della febbre. Ci sono stati dei colleghi che sono morti, io stesso sono stato male e per un paio di giorni a casa ho temuto di essere costretto ad andare in ospedale… per fortuna è passata grazie anche alle vaccinazioni che io ho sempre ritenuto, e ritengo, importanti».

Per concludere con una nota positiva, quale momento ricorda con particolare soddisfazione? «Le soddisfazioni sono state numerose… negli ultimi anni quella che ho vissuto con maggior piacere è legata ai momenti in cui ho visto portarmi in ambulatorio i figli di coloro che avevo visto nascere quando ho fatto servizio al Punto Nascita di Bibbiena, se poi venivano in ambulatorio accompagnati anche dalla nonna del bambino, mi vedevo davanti tutta la famiglia che ho seguito nel corso del tempo».

(Nella foto in alto, il dottor Giannini mentre discute la sua tesi di laurea. Sotto, mentre somministra il suo primo vaccino anti Covid)

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