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sabato, 21 Dicembre 2024

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«Mi chiamo Miranda e ho vissuto, da bambina, gli orrori e le devastazioni di un’altra guerra»

Nel 1944 avevo undici anni e abitavo a Partina in via Rosa Scoti Franceschi con la mia mamma il mio babbo e mia sorella. C’eravamo trasferiti da Quarata, in provincia di Arezzo, quando io avevo cinque anni perché il mio babbo doveva garantire il funzionamento della linea del telegrafo. A Partina lo avevano definito “guardiafili” perché, soprattutto durante l’inverno, quando cadevano abbondanti nevicate, il mio babbo partiva per alleggerire dalla neve i fili del telegrafo da Partina fino a Bagno di Romagna.

Il 13 di Aprile del 1944, la mia mamma si svegliò molto presto perché sentì dei rumori insoliti di mezzi pesanti che si fermarono in piazza. Da dietro le persiane vedeva tante sigarette accese e s’immaginò ci fossero i soldati. Preoccupata per ciò che questo avrebbe potuto significare, svegliò me e mia sorella e al buio ci fece vestire.

Non appena iniziò a fare giorno, i soldati scesero dai camion e andarono di casa in casa e condussero gli abitanti, così com’erano, vestiti alle belle meglio, in chiesa.
Quando tutta la popolazione fu radunata in chiesa, i tedeschi sprangarono la porta. Fuori, tutt’intorno alla chiesa si sentivano tanti colpi. Dopo abbiamo capito che facevano le buche per minare la chiesa.

Don Ezio, il nostro parroco, scoprì il crocefisso e iniziammo a pregare. Intanto i colpi continuavano. Il parroco disse ai miei genitori e ad altri che avevano bambini di salire in canonica dove, forse, avremmo potuto salvarci. Insieme alla mia mamma ci affacciammo alla finestra della canonica che da verso il fiume e vedemmo i tedeschi che con i mitra puntati fecero piegare in avanti un gruppo di uomini giovani come se dovessero fare ginnastica e li mitragliarono. Mia madre si svenne e cadde a terra. Io mi misi a urlare perché pensavo fosse stata uccisa anche lei. Poi vidi che i tedeschi tolsero le persone uccise dalla strada tirandoli chi per un braccio chi per una gamba e li ammassarono nel luogo ove è stato situato il cippo commemorativo.

Non riuscivo a distogliere lo sguardo da quel luogo. Dopo un po’ vidi un uomo che strisciando arrivò fin dentro il fiume. Nessuno poté andare ad aiutarlo.
In quello stesso giorno altri uomini, partigiani, che non riuscirono a scappare furono uccisi.
Nel frattempo una parte di Partina stava bruciando. Il Comandante dei Tedeschi, responsabile della zona, richiamato dall’incendio, scese da Faeta dove c’era il quartier generale e asserendo che nella sua zona non c’erano partigiani fece liberare la popolazione.

Il fuoco intanto continuava a bruciare nelle case vicino alla nostra abitazione. Per paura non andammo subito a casa. Ci sedemmo su una massa di terra lungo la strada che va verso Badia Prataglia e improvvisamente ci fu un grande scoppio. Era una mina fatta scoppiare per domare l’incendio. Anche il tetto della mia abitazione subì delle lesioni.
Era già pomeriggio inoltrato quando i tedeschi lasciarono il paese e, solo allora, due donne di Partina, Nella e Delia poterono andare a recuperare i corpi dei giovani uccisi la mattina dai tedeschi. Usarono una scala a pioli come barella e li portarono nel fondo di Ivo.

Noi, la sera andammo a dormire a Bibbiena da amici e la mattina successiva, con il treno, andammo dai parenti di Quarata. Ci stemmo poco tempo, però, perché tutte le notti suonava l’allarme e passavano aerei quindi c’èra la paura di bombardamenti. Ritornati a Partina, trovammo alloggio presso una famiglia di un contadino insieme con altri compaesani.

A Luglio, quando i tedeschi iniziarono a ritirarsi, ci fu un nuovo rastrellamento da parte dei tedeschi stessi e ci fecero riunire di nuovo in chiesa. Pensavamo che questa sarebbe stata la volta che ci avrebbero ucciso. Invece da lì fummo caricati in un camion e portati alla Mausolea dove rimanemmo per un giorno.

La notte ci fecero salire su dei camion e partimmo alla volta della Romagna. Durante la strada più volte il cielo fu illuminato a giorno dai bengala e i tedeschi si nascondevano lasciando i camion con il loro carico in mezzo alla strada. A Santa Sofia ci fecero scendere dai camion e a piedi dovevamo andare a Galeata. Erano circa due chilometri. I pochi bagagli che avevamo furono saliti sopra un carro trainato da buoi.

Io ero tanto magra e sfinita, non ce la facevo a camminare. La mia mamma chiese ai tedeschi se mi potevano far salire sul carro insieme ai bagagli. Acconsentirono. Avevano fatto un breve tratto di strada quando arrivò un aereo che iniziò a mitragliare. Tutti si nascosero tra gli alberi. I tedeschi si nascosero in delle buche scavate nel terreno. Io rimasi sopra il carro e vedevo il soldato che mitragliava. Vedevo la mitraglia che si spostava e le pallottole che uscivano. L’aereo era così basso che avevo paura mi portasse via la testa. Penso che anche il soldato mi abbia visto e che mi abbia risparmiato.

Quanta paura ho avuto. Ancora oggi ci sono dei rumori che mi ricordano questo episodio e mi fanno tanta paura.
Riuscimmo ad arrivare a Galeata ed io, mia sorella e la mia mamma fummo ospitate da una famiglia di un medico condotto. Ci ospitarono come persone di famiglia. Ci raggiunse, dopo un po’ di tempo, anche il mio babbo che era riuscito a scappare dai Tedeschi che lo avevano preso per lavorare per loro.

A settembre tornammo a casa. Il viaggio di ritorno fu fatto a piedi e durò tre giorni. Alla fine avevamo tanta fame e avevamo solo un po’ di pane secco. Arrivati in Campigna, vedemmo un campo con dei pomodori maturi.

Mia sorella di due anni più grande di me, si precipitò per coglierne qualcuno per fare un po’ di pappa con il pane secco e con i pomodori. Arrivata vicina ai pomodori, si accorse che c’erano tanti fili. Il campo era minato. Le persone che erano con noi le indicavano dove passare per non urtare i fili e riprendere la strada sana e salva.

La pappa fu fatta in un secchio con solo il pane secco. Quando, stremati, arrivammo all’eremo di Camaldoli i frati ci accolsero ci diedero da mangiare e da bere. Un baccalà rifatto così buono non lo avevo mai mangiato.

Trovammo la casa devastata e non era rimasto niente. La mia mamma, dopo la guerra, poté recuperare un po’ della sua biancheria quando le persone facevano il bucato e lo stendevano nelle siepi ad asciugare. La riconosceva dalle cifre che da giovane aveva fatto nel suo corredo e la prendeva. Nessuno protestò.

Al passaggio del fronte, sorte peggiore toccò a una famiglia che era rimasta in paese. Il figlio di otto anni fu ucciso in braccio alla sua mamma nel luogo dove ora c’è la Madonnina e dei cippi con i nomi delle persone che hanno perso la vita in quel triste periodo.

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