di Francesco Trenti – La prima coltre di neve ha coperto i nostri monti e la cosa più saggia da fare mi è parsa quella di lasciare questo tempo e questo spazio così assurdi per rifugiarmi, rigorosamente in solitaria, nell’alto delle nostre sacre foreste. Come sono solito fare comincio l’ascesa da Montalto in direzione di Bocca Pecorina, passando accanto alla bella chiesetta ricordo di un mondo rurale ormai lontano. Arrivato a Vitareta, con i polmoni che si riempiono del meraviglioso odore degli abeti bianchi, mi dirigo verso il sentiero di sinistra, quello più piano, che nel giro di pochi minuti mi fa incontrare cinque fossi gorgoglianti, vera linfa del Falterona. Un breve strappo sassoso mi riporta in quota, proprio vicino a una postazione della famigerata Linea Gotica, facendomi incontrare il sentiero principale che viene da Capo d’Arno. Un sorso di purissima acqua dalla gelida fonte di Razzagalline, già immersa nella candida ovatta della neve, e via di buon passo verso la mia meta. Un paio di centinaia di metri, un’ultima discesina e una breve salita ed ecco farsi più luce: sono arrivato al Lago degli Idoli, il luogo sacro agli Antichi.
Tutte le volte che lo visito, mai quante vorrei in realtà, tante sensazioni si sommano nel mio animo: la prima è il ricordo della più bella esperienza lavorativa (e umana) che abbia vissuto nell’ambito della mia professione; poi il tenero pensiero verso chi non c’è più di quel bel gruppo; infine l’emozione, pura e genuina, di trovarsi in un luogo senza tempo, un’emozione pari solo a quella provata durante gli scavi nel sentirsi sulle mani il peso del bronzo di una statuetta completamente coperta dal fango che l’aveva protetta nei precedenti due millenni e mezzo.
E allora mi siedo a rimirare quella piccola pozza, adesso completamente ghiacciata e avvolta nel pacifico abbraccio della neve, regina dell’inverno. Mi siedo e… immagino.
Immagino il guerriero che, stanco da mille battaglie, risaliva a piedi la montagna, con molta più agilità di me, vestito della sua armatura e portandosi dietro anche le pesanti armi, simbolo del suo essere. Me lo immagino racchiuso in qualche mantello di lana dai colori forti Testo – rosso bianco e nero – per difendersi dal freddo di un precoce inverno, e recarsi al luogo sacro per eccellenza della sua gente, i Rasna, per chiedere aiuto e consiglio alle divinità, da Tinia ad Uni da Hercle ad Artume. Lo immagino incontrare i sacerdoti, presenti in quel luogo così sacro tutto l’anno a dispetto del freddo e delle bufere a cui gli Dei però non badano, salutarli e rendergli omaggio, consegnando anche qualche vivero fresco dal fondovalle.
Me lo figuro poi spogliarsi della sua armatura e delle sue armi, prendere con sé solo una freccia del suo arco e gettarla nelle acque, immergendovisi poi fino al busto. Nel silenzio che mi circonda mi pare di sentire i canti dei sacerdoti e il profumo degli incensi che salgono dai braceri: odore di ginepro, vischio e ancora abete… E il grido di un’aquila, che sorvola la piccola radura e lo specchio d’acqua dove il guerriero aspetta il responso: ed eccolo! Due virate veloci del rapace e una picchiata verso una preda al di là del crinale orientale. Adesso saranno i sacerdoti a interpretare il segno, a lui non resta che aspettare, ascoltare e assecondare.
Un brusio mi riporta alla realtà: ecco un rumoroso gruppo di ciaspolatori alla scoperta dei nostri monti… Questo è il segnale che invece aspettavo io: è l’ora che vada. Saluto e rendo omaggio al Lago, il luogo sacro agli Antichi.
ArcheoCasentino, rubrica a cura del Museo Archeologico del Casentino “Piero Albertoni”