di Mauro Meschini – Si dice spesso che il Casentino non sia «una vallata a misura di giovani». Come non condividere questa affermazione? Ci sono purtroppo molti elementi oggettivi che confermano e fotografano una realtà in cui non si trovano stimoli, interessi, sbocchi professionali, opportunità a misura delle giovani generazioni e tutto questo, alla fine, porta molti a guardare altrove, ad abbandonare il luogo dove sono cresciuti per cercare contesti più attraenti e in grado di offrire risposte alle domande di socialità, lavoro e occasioni di formazione e crescita personale.
Preso atto di questo ci siamo chiesti: «ma allora il Casentino è una vallata a misura di anziani?», immaginando che le considerazioni fatte sui giovani portassero di riflesso a opposte conclusioni parlando di persone più… «grandi». Purtroppo però, ci siamo presto resi conto che, anche la risposta a questa domanda, non avrebbe presentato una realtà positiva, anzi, probabilmente la nostra vallata vista prendendo in considerazione le fasce della popolazione che, per età, sono più fragili, risulta essere ancora più problematica e meno ospitale, anche se sono proprio gli uomini e le donne riconoscibili in queste categorie di persone che fino ad oggi hanno reso possibile la sua crescita e il suo sviluppo negli ultimi decenni.
Forse è proprio la disgraziata combinazione tra mancanza di opportunità per i giovani e invecchiamento della popolazione del territorio che porta a rendere oggi la nostra realtà così difficile per chi è più avanti con l’età. I paesi si spopolano, le attività che gli animavano chiudono e non c’è il necessario ricambio che permetta di mantenere aperti i preziosi negozi dei paesi e delle frazioni, da sempre punti di riferimento fondamentali per le piccole comunità. Si aprono supermercati, ma non per tutti possono essere facilmente raggiungibili e così la quotidianità diventa un problema anche per quelle che possono sembrare esigenze di poco conto, si forse piccole ma necessarie per continuare a vivere con tranquillità.
Succede così che anche chi ha la fortuna di non avere particolari problemi di salute, che proprio l’avanzare dell’età purtroppo a volte porta con sé, si trova a fare i conti con ostacoli e fastidi che non contribuiscono certo a rendere serena e pacifica la parte della vita in cui si dovrebbe godere maggiormente di un meritato riposo. In questo contesto anche l’indiscusso vantaggio di vivere in un luogo oggettivamente tranquillo e accogliente rischia di venire cancellato dalla solitudine, dallo svuotamento di realtà fino a non molto tempo fa molto più vive e attive.
Poi se le cose si complicano, se gli anni si fanno sentire e non si riesce più ad essere pienamente autonomi, accade che si devono fare scelte dolorose e cercare luoghi dove si vorrebbe trovare l’aiuto di cui si sente il bisogno, dovendo però affrontare ulteriori e più grandi difficoltà, non solo dovute alla necessità di lasciare la propria casa e i luoghi che da sempre si sono conosciuti, ma anche perché rischia di essere complicato trovare una collocazione che sia almeno nello stesso territorio.
Questo ci fa tornare in mente quello che è accaduto circa tre anni fa a Stia, quando l’epidemia dovuta al Covid-19 e la successiva definitiva chiusura della RSA «San Borromeo», hanno strappato tanti anziani da quello che era diventato il loro contesto di vita portandoli in altri luoghi, anche lontani, provocando dolori e sofferenze a persone già provate dall’età e dal loro stato di salute.
Della vicenda della chiusura della RSA di Stia abbiamo parlato più volte, la ricordiamo oggi, in questo articolo con cui vogliamo proporre una riflessione, non solo sul numero delle strutture e sulla qualità dei servizi rivolti alla popolazione più anziana in Casentino, ma anche e soprattutto su quanto e come si cerca di garantire a chi è più avanti con l’età la possibilità di vivere serenamente e il più possibile in autonomia. Si, perché a volte quello di cui ci sarebbe bisogno non sarebbe così complicato da avere: un semplice aiuto; il sapere di poter contattare qualcuno in caso di bisogno; la certezza che un medico potrebbe essere in poco tempo a disposizione; avere la sicurezza che, anche vivendo da soli, la comunità è organizzata per esserci e rispondere alle necessità piccole o grandi che possono manifestarsi.
A questo si dovrebbe pensare, garantendo il più possibile a tutti di vivere in autonomia gli anni di una vita che si è allungata e si dovrebbe cercare di mantenere vitale e attiva. Poi, ci può essere bisogno del passo successivo, di un aiuto più continuo che non può essere dato a casa, ma questo non può voler dire essere sradicati dal proprio contesto di vita. Anche in questo caso prima di arrivare alla scelta estrema della RSA ci potrebbero essere anche passi intermedi, centri diurni adesso assenti, luoghi a misura familiare comunque vicini e presenti nei diversi paesi, o ancora le stesse strutture di assistenza potrebbero essere concepite in un modo diverso.
Certo, affrontare questo argomento non è semplice, abbiamo voluto provare a farlo partendo dalle esperienze che ci hanno portato a contatto con i servizi rivolti agli anziani, con le informazioni raccolte in vari contesti, ma, soprattutto, grazie alla testimonianza e alle riflessioni che abbiamo condiviso con Agnese Giusti, un’operatrice socio assistenziale casentinese che vorrebbe «… essere presentata come OSS di professione, devota ad una visione di assistenza che «scruta con occhi nuovi» e cittadina interessata al suo luogo e al benessere di chi lo vive».
Iniziando osservando la mappa delle strutture rivolte agli anziani, si rileva che queste riescono a dare una risposta soprattutto a chi è non autosufficiente ed ha quindi necessità di un livello di assistenza più alto. Partendo da Stia, a due anni dall’annuncio della ricostruzione della RSA niente si è mosso. Ora sembra che la Cooperativa Koiné, a cui sarà affidata la gestione, confermi questo proposito per cui a gennaio ci dovrebbe essere la firma degli atti e a marzo l’inizio dei lavori.
Troviamo poi la “Casa di riposo San Romualdo” di Pratovecchio, una piccola struttura, nel centro del paese, che cerca di dare già adesso una risposta anche ad anziani autosufficienti. È quello che abbiamo auspicato poco sopra, ma c’è il rischio concreto che una volta riaperta la RSA di Stia si proceda alla sua chiusura proprio perché piccola e quasi a misura familiare. Se ciò accadesse, senza prevedere niente a Pratovecchio, sarebbe una grave perdita.
Andando avanti ecco la RSA ”Casa albergo per Anziani” di Castel San Niccolò; la RSA “Centro Polifunzionale Cerromondo” e RSA «Ponte a Poppi» a Poppi; la «Casa di Riposo Santa Maria Goretti» a Bibbiena; la RSA «La Consolata» a Serravalle. Non ci preoccupiamo qui di definire oltre le caratteristiche di ogni struttura, il loro carattere pubblico o privato, ci interessa la loro presenza e quanto e se possono essere in grado di rispondere alle richieste del territorio. Una lettura attenta di dati che potrebbe proseguire la riflessione che qui vogliamo proporre aiuterebbe a dare risposte oggettive a queste domande, certo un’osservazione che possiamo subito fare porta a dire che sembra ci siano parti del territorio scoperte completamente da questi servizi.
Ma al di là del numero, come abbiamo accennato in precedenza, sarebbe importante che, puntando il più possibile a dare un supporto all’autonomia a casa, questi e altri luoghi, magari più piccoli e presenti in tutti i paesi del Casentino, non fossero solo punti di collocazione definitiva, ma in grado di offrire supporto in caso di particolari e momentanee necessità dovute a una malattia, a necessità familiari a qualsiasi altro motivo che potrebbe rendere complicato in quel momento una vita indipendente. Questi rete di luoghi di sostegno andrebbe ad arricchire i servizi all’autonomia finalizzati a risolvere i piccoli problemi quotidiani sopra ricordati.
Ma parlando in maniera più specifica dei luoghi di assistenza e cura veri e propri ecco una sintesi delle riflessioni che abbiamo condiviso con Agnese Giusti. «Occorrerebbe evidenziare quanto importante sia la loro funzione e quanto sia fondamentale la qualità del servizio che offrono, qualità che può essere elevata con una maggiore attenzione alla specializzazione e professionalizzazione del lavoro di cura che deve essere riconosciuto e valorizzato. Allo stesso tempo si deve arrivare ad un cambiamento del significato del sostantivo vecchiaia, inteso non come malattia inguaribile, ma come ciclo naturale della vita. Vista con gli occhi di chi lavora nelle strutture per anziani la realtà presenta alcuni aspetti critici, il cui superamento contribuirebbe a fare un auspicato salto di qualità. Proviamo a evidenziarne alcuni sperando che questo possa sollecitare altre riflessioni e contributi preziosi.
Un primo aspetto riguarda l’organizzazione del lavoro e dei turni, che spesso segue la migliore funzionalità contrattuale e organizzativa dei lavoratori e non il rispetto dei ritmi e dei tempi della persona. Rinforzare la cultura dell’assistenza volta alla persona in senso olistico, non solo rispetto ai bisogni primari, ma anche alla sfera psicologica e sociale, aiuterebbe ad allontanarsi dall’immagine di ambienti in cui gli anziani trascorrono l’inesorabile scandire delle ore seguendo gli stessi rituali. Oltre a questo non aiuta la standardizzazione degli arredi, spesso asettici e in stile ospedaliero. L’impatto dell’ambiente incide sulla persona, che a sua volta agisce nell’ambiente. Occorrerebbe impegnarsi a creare maggiormente un ambiente di tipo domestico, terapeutico e il più possibile sentito proprio, anche con l’utilizzo di effetti personali. Un luogo naturalmente concepito nella garanzia della sicurezza, ma anche un ambiente in cui poter dare continuazione all’esistenza fino ad allora vissuta.
Per quanto riguarda gli operatori e l’organizzazione, appare importante attuare un modello in un’ottica di lavoro in equipe multidisciplinare con integrazione, cooperazione e condivisione al fine di rendere tutti più consapevoli delle criticità e delle carenze che compromettono il benessere esistenziale degli utenti. In più è necessaria la formazione ed il sostegno della dimensione sociale-relazionale legata all’esercizio della professione e fondamentale è prevedere un servizio di supervisione psico-educativa per contenere e prevenire i vissuti di burnout dovuti allo stress insito nel lavoro.
Spesso le necessità organizzative, gestionali ed economiche portano ad una standardizzazione dei bisogni e delle risposte offerte. Ma gli anziani hanno caratteristiche e vissuti differenti e per questo non omologabili e presentano bisogni diversificati, bisogni che difficilmente vengono soddisfatti perché in contrasto ai tempi, ritmi e abitudini dettate dalla gestione organizzativa e alle necessità della struttura. Il rischio è quello di attivare una sorta di «catena di montaggio» per esseri umani. Centrale sarebbe, invece, mettere sempre al centro la «Persona» intesa come unicità, centralità e dignità inserita in una presa in cura e carico orientata ad una prospettiva di futuro, anche se di breve termine, che rimane comunque rispettosa della persona e della sua storia».
Un territorio come il Casentino potrebbe avere le caratteristiche per aprire una riflessione complessiva che porti a guardare alla persona come una ricchezza da custodire e non un peso da gestire. Questo tema, se affrontato in maniera complessiva e coordinata, potrebbe rappresentare per la vallata un valore aggiunto in grado di caratterizzarla anche oltre i propri confini.