fbpx
1.2 C
Casentino
mercoledì, 22 Gennaio 2025

I più letti

Ospedale del Casentino, tra passato e futuro

di Francesco Meola – Sono cominciati lo scorso ottobre i lavori di demolizione di una porzione di edificio dell’ospedale del Casentino la cui ricostruzione è destinata a ospitare la Casa della Comunità di Bibbiena per rispondere ai bisogni di assistenza sanitaria e sociosanitaria della cittadinanza. Un intervento che dovrebbe ridare vita a una struttura che, nel tempo, si è impoverita di numerosi reparti ma, nonostante tutto, rappresenta ancora un baluardo della sanità della vallata che, per anni, ha visto nascere tra queste mura la maggior parte dei suoi abitanti.

A tal proposito abbiamo pensato di intervistare uno dei medici che ha legato fortemente il suo nome a quello che un tempo era il Punto Nascita del nosocomio casentinese e al quale, in tanti, hanno affidato le cure dei propri figli: il pediatra Luca Tafi. Con lui abbiamo ripercorso le varie tappe di vita dell’ospedale in una conversazione densa di ricordi ma con uno sguardo volto anche al futuro, non soltanto della struttura ma anche della medicina in generale.

Innanzitutto, grazie per la sua disponibilità, dottore. Parlando dei tempi in cui vi ha lavorato lei, cosa rappresentava per gli utenti l’ospedale di Bibbiena? «Quando negli Anni ‘90 vi lavoravo io, l’ospedale era un punto di riferimento sanitario per tutto il Casentino. All’epoca erano pochi coloro che si recavano nei nosocomi di Arezzo e Firenze e questo a prescindere dalla gravità della patologia, dal momento che Bibbiena disponeva un po’ di tutti i reparti più importanti».

E poi, cosa è successo? «Le cose sono iniziate a cambiare con l’istituzione dell’Usl 8, ossia quella di Arezzo. Quest’evento, affiancato ai mutamenti dei livelli assistenziali dovuti all’evoluzione della medicina, ha fatto il resto. Negli anni, infatti, il trattamento di alcune patologie è stato dirottato presso l’ospedale di Arezzo e pertanto in tanti hanno iniziato a spostarsi verso il capoluogo anche per delle semplici consulenze, causando la progressiva diminuzione dell’utenza che prima gravitava su Bibbiena».

Ciononostante, l’ospedale svolge ancora oggi una funzione importante e, non a caso, da alcuni mesi sono iniziati anche i lavori di ripristino della vecchia ala. Pensa che da questi interventi l’offerta ospedaliera locale possa trarre dei vantaggi? «Devo dire che l’avvio dei lavori mi ha fatto un enorme piacere. Vedere quella parte di ospedale abbandonata da anni a sé stessa mi intristiva mentre questa ricostruzione la vivo un po’ come una rinascita e, siccome per natura, mi ritengo un ottimista, credo che grazie a queste opere la struttura possa soltanto migliorare».

Una volta ultimati, quali servizi in più sarà in grado di offrire? «Non sono a conoscenza nel dettaglio di quelli che sono gli interventi previsti, ma per quel che so dovrebbero essere realizzati una serie di lavori che innalzeranno sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo il livello generale dei servizi offerti. Oltre a un incremento delle performance extra ospedaliere, infatti, dovrebbero trovare spazio anche nuove attività ambulatoriali e legate al post-dimissioni».

Qual è, secondo lei, la problematica principale con la quale attualmente deve misurarsi questa struttura? «Penso che l’ospedale soffra innanzitutto di una grave carenza di medici che però non è legata a delle volontà aziendali. Oggigiorno, purtroppo, sono sempre meno i medici disposti a lavorare nei piccoli nosocomi, pertanto, fatta eccezione per le grandi strutture pubbliche e le cliniche universitarie, tutte le altre soffrono dello stesso problema. I giovani specialisti preferiscono operare nel privato o in quello convenzionato, in quanto lavorare al di fuori degli ospedali pubblici significa anche avere più possibilità di scegliere il proprio orario di lavoro e dal momento che sempre meno ragazzi sono disposti a lavorare nei fine settimana, di notte o nei festivi, capirà che questo rappresenta un grosso problema. Poi c’è il discorso legato ai guadagni. Ci sono alcune strutture private in cui gli stipendi sono addirittura superiori a quelli del pubblico, almeno nell’immediato e dunque, con una rosa di possibilità così ampia come quella di oggi, le strutture meno appetibili fanno più fatica a trovare personale».

Cosa intende per meno appetibili? «Mi riferisco ai piccoli ospedali come quello di Bibbiena dove si è chiamati sovente a occuparsi di più bisogni per cui il professionista che vi lavora deve essere in grado di operare a 360°. In un grande nosocomio, invece, è più probabile che il medico possa concentrarsi soltanto sulla propria branca venendo quindi a contatto con una gamma di casistiche molto più gestibile».

Ma come si è arrivati a questo punto? «Penso che tutto questo sia anche il frutto di quanto accade nelle scuole di specializzazione, che tendono, passatemi il bisticcio di parole, a superspecializzare lo specializzando. Faccio un esempio per essere più esaustivo. Poniamo il caso di un diabetologo chiamato a lavorare in un piccolo ospedale dove il suo reparto non esiste neanche: che possibilità ci possono essere che sia invogliato a operare in una struttura dove si dovrà occupare soprattutto di altro? Ai miei tempi non era così. Chi studiava medicina non era superspecializzato in una sola branca ed era abituato a dover affrontare anche quelle situazioni che non afferivano esclusivamente al proprio campo».

Quindi come si può sperare di rilanciare il nostro nosocomio? «A mio avviso, affinché l’ospedale del Casentino possa giocare nuovamente un ruolo importante, è necessario venga fatta innanzitutto un’attenta analisi dei bisogni della popolazione locale. Faccio un esempio. Si parla sempre di quanto sarebbe importante disporre nuovamente di un Punto Nascita o di altri reparti, ma siamo sicuri che siano queste le vere priorità? Ovvio che se ci fosse un Punto Nascita ci sentiremmo tutti più tranquilli ma quanti bambini sono nati lo scorso anno nella nostra vallata? Le statistiche parlano di poco più di 100. Capirà bene, quindi, che di fronte a simili numeri, probabilmente le priorità sono altre».

E come si fa quindi a stabilire quali siano? «Attraverso un attento studio epidemiologico della cittadinanza locale in grado di determinare quali siano le patologie più bisognose di assistenza. Una volta in possesso di questi dati si potrebbe agire di conseguenza. L’ospedale andrebbe dunque rimodulato sulla base delle esigenze più impellenti e inoltre, se si vuole incentivare la venuta di nuovi medici, bisognerebbe garantire loro la possibilità di lavorare non soltanto a Bibbiena ma anche negli altri ospedali dell’azienda. Questo consentirebbe di offrire un servizio migliore agli utenti e far crescere, contemporaneamente, la professionalità dei nuovi medici che avrebbero così l’opportunità di occuparsi sia delle esigenze più disparate che di quelle legate alla propria specializzazione. Checché ne dicano alcuni, io sono di quelli che ancora vedono nel piccolo ospedale un luogo ideale in cui crescere. Essere costretti ad occuparsi di un po’ di tutto aiuta dal momento che, a mio avviso, un bravo medico deve essere in grado di andare oltre la propria specializzazione».

Ma sul piano dell’offerta ospedaliera è ipotizzabile che in futuro possano riaprire dei reparti che in passato sono stati chiusi? «Penso che allo stato attuale sia difficile e non credo che in futuro la situazione possa cambiare più di tanto. Teniamo presente che per gestire un reparto, in grado di operare 24 ore su 24, occorrono almeno sei medici (se si fa l’ipotesi di farne lavorare uno alla volta, n.d.r.). Proviamo a moltiplicare questo numero di soggetti per tutti i reparti di cui ci sarebbe bisogno in un ospedale: di quanti professionisti necessiteremmo? Tanti, probabilmente troppi per le casse dello Stato pertanto ritengo inverosimile ipotizzare che Bibbiena possa puntare su dei numeri così importanti se finanche gli ospedali di città hanno difficoltà a mantenere in piedi tanti reparti».

Rispetto a quando lavorava lei come e quanto è cambiato il suo settore? «Sono cambiate tante cose, a partire dall’approccio delle persone alla medicina. Un tempo ci si recava dal medico di famiglia o in ospedale, ma non si aveva la pretesa di essere necessariamente curati da uno specialista. Ai miei tempi si ricorreva agli specialisti quasi esclusivamente per la cura degli occhi e dell’apparato respiratorio, mentre per il resto ci si affidava a un medico qualunque. Io, ad esempio, mi occupavo del pronto soccorso in generale senza che nessuno avesse nulla in contrario dell’essere preso in carico da un pediatra. Oggi questo è impensabile. L’utenza è divenuta giustamente più esigente e richiede la consulenza di uno specialista per qualsiasi tipo di problematica e chi di dovere è dunque chiamato a garantire un servizio sempre più puntuale e di qualità».

Ultimi articoli