di Mauro Meschini – Era il 13 aprile di 76 anni fa, uno dei giorni più tristi per il Casentino, e la prima cosa che ci ha tenuto a dire Luigi Giannini quando l’abbiamo contattato per l’intervista è stata: «Io ricordo quello che è accaduto come se fosse ora».
Non potrebbe essere altrimenti, in quel giorno Luigi Giannini, che aveva allora solo 8 anni, vide uccidere il padre e fu testimone di una delle tante stragi che hanno insanguinato questo territorio nel corso della Seconda Guerra Mondiale.
È stato per noi un grande privilegio avere la possibilità di ascoltare la sua storia, come in questi anni è stata per noi quasi una missione cercare di raccogliere e proporre le testimonianze di altri protagonisti di quel periodo così difficile. Siamo convinti che la memoria sia un bene prezioso e che la verità dei fatti non possa essere rivista o riadattata solo perché sono trascorsi tanti decenni da allora. Sarebbe sempre bene ricordare che il nostro presente, in gran parte, è iniziato allora e che se abbiamo avuto 75 anni di Democrazia e Libertà lo dobbiamo all’esito di quel conflitto e alle scelte che sono state fatte in Italia negli anni successivi, soprattutto con la nascita della Repubblica e la promulgazione della Costituzione.
Profondamente convinti di questo e pienamente diffidenti nei confronti di chi dimentica troppo spesso le responsabilità e i crimini di cui si sono macchiati quelli che qualcuno vorrebbe riabilitare, vogliamo raccontare anche questa storia, anche questa accaduta il 13 aprile 1944, giorno in cui anche a Vallucciole e a Partina la crudeltà e la barbarie dei nazisti tedeschi e dei fascisti italiani, loro scagnozzi, provocarono tante vittime e tanto dolore.
Come ascolteremo da Luigi Giannini al Moscaio ci fu anche qualcosa in più, e alla fine ci furono 9 vittime.
Giannini ci racconti la sua vita a Moscaio…
«Avevo 8 anni e vivevo con la mia famiglia a Moscaio, una piccola frazione che si trova dopo Banzena e prima di Giona, nel Comune di Bibbiena. Nella mia famiglia c’erano mio nonno, che curava il cimitero del Moscaio e quello di Campi per conto dl Comune. Poi c’erano mio padre, mia madre e altri 3 fratelli. Nella frazione di Moscaio vivevano 19 nuclei familiari. La cosa strana di questa tragedia è che sono venuti a Moscaio, dopo essere passati da Banzena, che si raggiunge in cinque minuti a piedi, senza toccare niente e nessuno».
Chi abitava o cosa c’era in quella frazione di particolare?
«Io posso dire che lì abitava uno zio della mia mamma, detto “Perugia”, che si dice fosse un comunista. Ma io so che tutte le sere dopo mangiato si andava a dire il rosario in casa sua, ci mettevamo tutti insieme vicino al fuoco e proprio lui con la corona guidava la preghiera. Comunque questo si diceva e il Moscaio lo chiamavano “la piccola Russia”… Era un paesino con strade strette e vicoli e con le porte delle case una vicina all’altra. Accanto a dove abitava la mia famiglia c’era quella della famiglia Piantini. Conoscevo bene quella famiglia perché vi abitava anche una bambina che aveva più o meno la mia età e con cui giocavamo sempre insieme. Mio babbo andava sempre a caccia con il padre della bambina e accadde che quando nel periodo della guerra fu ordinato di consegnare le armi loro non lo fecero. Mio babbo aveva avvolto il fucile con della stoffa e lo aveva legato sotto la tavola della cucina, mentre Agostino Piantini, avendo in casa il pavimento a mattoni rossi caratteristico delle case di campagna, avevo scalzato una fila di mattoni aveva scavato un po’ e aveva nascosto il fucile, sistemando poi sopra tutto così bene che non si vedeva nessuna differenza. Non sapendo cosa c’era lì sotto nessuno avrebbe potuto sospettare qualcosa».
E il 13 aprile cosa accadde?
«Quella mattina si stava appena facendo giorno, arrivarono con dei mezzi e iniziarono a buttare giù le porte e a entrare nelle case. Io stavo dormendo, come tutti, mio nonno forse si accorse prima degli altri di quello che stava succedendo perché riuscì a uscire e a scappare verso il bosco. Invece mio babbo non riuscì a scappare. Anche il “Perugia”, che aveva dalla parte opposta all’ingresso di casa delle finestre che davano sui campi, riuscì a scappare proprio mentre stavano cercando di abbattere la sua porta. Tutti comunque cercarono di scappare da qualche parte, ognuno andava in una direzione diversa, mentre si sentivano spari e urla. Nella casa dei Piantini andarono subito e direttamente in quel punto del pavimento, con la baionetta scalzarono i mattoni e presero il fucile, in casa mia invece non riuscirono a trovarlo. Forse Agostino Piantini l’aveva detto a qualcuno e la voce era giunta a chi quel giorno arrivò per uccidere, non si spiega in altro modo come possano averlo trovato, dovevano essere ben informati… Anche perché c’è il fatto che la sera precedente la strage una famiglia del Moscaio, padre, madre e una figlia; dopo cena preparò una borsa con il necessario per dormire e andò via, quella notte dormirono tutti da un’altra parte poco lontano da lì. Poi quella mattina tutte le porte delle case furono buttate giù, la porta della casa di quella famiglia non fu toccata, lo sapevano che lì non dovevano toccare niente… Io so chi era… una spia, o forse soltanto qualcuno a cui faceva comodo comportarsi così…
Comunque quella mattina presto io rimasi lì nel mezzo, tra le urla e la confusione, ricordo di aver visto che avevano trovato il fucile, non erano tedeschi perché parlavano italiano. Mi dissero di andare via, ero ancora scalzo, buttarono una bomba dentro la casa dei Piantini che fece crollare tutto. Anche una parete della mia casa crollò perché era confinante. Lo scoppio provocò una nuvola di polvere con i vetri e le schegge che schizzarono ovunque, io mi tagliai i piedi, mi allontanai e mi nascosi dietro a dei ributti di ulivo nati da piante che erano state tagliate perché si erano seccate per il freddo. Io continuavo a sentire gli urli, gli spari e i colpi contro le porte o altro, stavano spaccando tutto. A mio babbo, Vittorio Giannini, e a Giannini Assuelo dissero di andare via verso il campo di ulivi, loro si allontanarono e gli spararono una raffica di mitra. Sentivo mio babbo che si lamentava e che chiamava, ma io ero lì fermo… Agostino Piantini si accorse che lo volevano fare allontanare per ucciderlo, ma lui rimase fermo in piedi, allora gli misero una pistola alla testa e spararono. Non ho visto mentre accadeva, ma sentii chiaramente un colpo di pistola, uno solo. Oltre a questi tre omicidi, uccisero anche i giovani che si trovavano sopra il paese ai limiti del bosco, stavano lì a dormire, un po’ nascosti, perché erano giovani e temevano di essere presi. Anche questo è strano… come potevano sapere che in quel bosco ci fossero delle persone? Eppure andarono sicuri piazzarono la mitragliatrice ai limiti di una carbonaia e spararono… morirono nel sonno perché furono trovati i loro corpi tutti vicini… mi ricordo quando poi arrivarono altre persone dopo la tragedia che coprirono i corpi con dei lenzuoli per poi portarli nella cappella del cimitero. Dopo circa un’ora finalmente se ne andarono, portando via alcuni uomini che rinchiusero nella cappella di Marena, che è dei Nati. Avrebbero fucilato anche loro, ma grazie all’intervento dei Borghi e degli stessi Nati furono liberati dopo circa una settimana.
Anche io quando andarono via sono uscito dal mio nascondiglio e vidi mio nonno che era ritornato dal bosco, che aveva per la mano anche mio fratello. A quel punto vidi Agostino Piantini che aveva un buco nella testa da cui usciva del sangue, come vidi anche mio babbo disteso nel campo…».

Quel giorno voi del Moscaio avevate avuto notizia di quello che era accaduto a Partina e Vallucciole?
«Dopo lo abbiamo saputo, in particolare di quello che era successo a Partina… era lo stesso giorno… non so come abbiano potuto essere così tante persone per compiere tutte quelle stragi… Forse Moscaio non erano così tanti, e forse avrebbero potuto provare a ribellarsi… ma in quel momento c’era solo paura…».
Anche questa strage, comunque, è stata compiuta senza motivo?
«Non c’erano motivi, anche le voci su “la piccola Russia” non avevano fondamento, c’erano solo persone semplici, addirittura mio babbo lavorava con la TODT (l’organizzazione che realizzava i lavori per l’esercito tedesco, n.d.r.) nei lavori per la realizzazione delle postazioni nella zona di Serravalle. Anche quella mattina sarebbe dovuto andare a lavorare, se fossero arrivati un po’ più tardi non lo avrebbero trovato. Da noi poi non c’era neppure una presenza di partigiani che potesse portare a dire che la popolazione gli avesse aiutati. In quella zona non aveva senso la presenza di nessuno, anche i tedeschi non li avevamo mai visti».
I responsabili della strage erano italiani, si ricorda se avevano divise e se portavano delle maschere?
«Mi ricordo che dissero “vai via”, un tedesco non può parlare così bene l’italiano. Indossavano delle tute mimetiche, tipo militare. Ma non erano militari, non erano vestiti tutti allo stesso modo e non avevano maschere erano a viso scoperto».
Dopo la strage siete rimasti anche senza casa?
«Si era tutto crollato e avevamo perso tutto. Ci portarono dei vestiti e qualcosa per vestirci. Poi vennero dei miei zii e ci portarono a Bibbiena. Poi mio fratello più grande andò nel collegio di Sestola, sopra Modena; io alla Pia Casa ad Arezzo in via Garibaldi dove ho imparato a fare un po’ il falegname; il terzo fratello di quattro anni andò a Monterotondo in un istituto di suore; quello ancora più piccolo di 4 mesi lo prese la mia zia di Soci, la sorella di mio babbo, perché mia madre aveva bisogno di aiuto…».
E dopo questa esperienza nel collegio è tornato in Casentino?
«In questi collegi a 18 anni i ragazzi dovevano uscire e potevano esser richiesti dai parenti, oppure gli stessi istituti trovavano per loro un posto come militare. Io tornai dalla mia mamma, stavamo sempre a Moscaio e mi spostavo per lavorare subito come falegname. A Bibbiena all’inizio degli anni ‘60 c’erano tanti falegnami e fallirono tutti. Io avevo un piccolo fondo in via Dante a Bibbiena e ho cominciato da lì a lavorare. Ho trovato persone che mi hanno aiutato, così ho avuto la possibilità successivamente di costruire su un terreno dei capannoni più grandi».
Cosa produceva mobili in genere o cucine?
«Ho iniziato subito a realizzare cucine».
E la sede a Ortignano Raggiolo allora è stata realizzata dopo?
«Ero amico dei Basagni e insieme prendemmo il terreno sui cui poi nel tempo è prima nata la Miniconf e poi, successivamente, anche i miei spazi. Il mio capannone fu realizzato a fine Anni ‘70 dalla Baraclit con delle modalità innovative per le coperture e nei primi anni lo utilizzarono come prototipo da presentare ad altri potenziali clienti».
Poi è stata aperta l’attività qui… e adesso?
«Ora il lavoro, dopo il periodo d’oro durato fino agli anni ‘80, richiede più impegno, ci sono meno utili. Adesso sono i miei figli che seguono l’azienda. La struttura c’è ed è solida, ci sono tutte le condizioni per andare avanti, lavorando e producendo sempre con attenzione alla qualità e alle esigenze dei clienti».
(tratto da CASENTINO2000 | n. 317 | Aprile 2020)