di Fabio Bertelli – «Non è l’insegnamento che forma l’allievo, ma l’esempio che gli viene dato». Questa frase attribuita ad Albert Schweitzer, medico e filosofo insignito del premio Nobel per la pace nel 1952, è perfetta per introdurre una persona che da anni ricopre un ruolo importante nelle vite di tanti ragazzi che crescono, calcisticamente e non, grazie ai suoi insegnamenti e ai suoi consigli: Paolo Rubetti, esempio di persona seria che, al contempo, svolge il suo lavoro con la passione di un ragazzo. Paolo ha quarantotto anni, vive a Bibbiena, lavora come insegnante di educazione fisica presso l’ISIS Galileo Galilei di Arezzo e, ormai da molto tempo, è un allenatore di calcio con patentino Uefa B. Siamo andati a trovarlo per farci raccontare meglio quello che fa.
Ciao Paolo, ci racconti un po’ della tua carriera come allenatore? «Premetto che il calcio è la mia grande passione e mi sento estremamente fortunato di riuscire a spendere gran parte del mio tempo libero a lavorare, studiare e approfondire la mia conoscenza di questo magnifico sport. Io ho iniziato, ormai parecchi anni fa, come allenatore presso la scuola calcio del Bibbiena. Progressivamente ho deciso di specializzarmi e di rivolgere le mie attenzioni maggiormente verso il settore giovanile, iniziando a lavorare con ragazzi dai tredici ai diciotto anni, appartenenti a tre categorie: giovanissimi, allievi e juniores. Sono legato in particolar modo alla società del Bibbiena, con la quale ho avuto un lungo rapporto di collaborazione che mi ha permesso di vivere stagioni particolarmente intense ed emozionanti, come quelle in cui ho avuto modo di confrontarmi con dei campionati élite. Dopodiché, ho avuto modo di lavorare anche con altre società della vallata, fino a quando, ormai quattro anni fa, mi è arrivata una chiamata molto importante, da Arezzo. Così, per la prima volta, ho dato avvio ad un rapporto di collaborazione con una società professionistica; rapporto che dura ancora tutt’oggi. I primi due anni mi sono occupato, insieme ad altre persone, di creare una scuola calcio, che sino a quel momento non esisteva. Poi, negli ultimi due anni, mi è stato affidato uno splendido gruppo di ragazzi, tra cui due del casentino, Leonardo Valentini e Mirko Giannelli, con i quali ho dapprima vinto un campionato provinciale e successivamente partecipato ad un complicatissimo, ma bellissimo, campionato nazionale, tutt’ora in corso».
Cosa significa essere allenatore in una società professionistica? «Rispetto alle mie precedenti esperienze, quella che sto attualmente vivendo è qualcosa di totalmente nuovo. La prima grande differenza riguarda sicuramente l’attenzione ai dettagli. In una società non professionistica l’allenatore deve essere capace di svolgere contemporaneamente più ruoli. Qui all’Arezzo, invece, ho la fortuna di avere degli splendidi collaboratori, i quali mi permettono di concentrarmi solo ed esclusivamente su ciò che riguarda il campo, garantendomi la possibilità di curare qualsiasi dettaglio. Vorrei ringraziare Cesare Nasorri, viceallenatore e preparatore atletico, e Mirko Nannucci, preparatore dei portieri. Oltre a loro, ci sono anche dei dirigenti accompagnatori che seguono la squadra. Cambiano anche quelle che sono le aspettative societarie e le pressioni da gestire, alle quali mi sto progressivamente abituando».
Quanto è importante il lavoro mentale con i ragazzi, oltre a quello fisico e tattico? «Oramai sono tanti anni che mi trovo in contatto e lavoro fianco a fianco con ragazzi in piena età adolescenziale e in costante cambiamento. Personalmente ritengo che il lavoro mentale e psicologico sia di estrema importante per cercare di creare un legame tra me e loro e garantire lo svolgimento del mio lavoro. Come dico sempre anche ai miei ragazzi, l’aspetto mentale è fondamentale poiché è da lì che parte tutto. Si può essere dei fenomeni con il pallone, si può essere fisicamente prestanti, ma se non siamo in armonia, innanzi tutto con noi stessi, non siamo in grado di rendere al meglio. Per questo motivo cerco di essere per loro una sorta di fratello maggiore, al quale possono confidare qualunque problema. Così facendo si viene a creare un legame di fiducia che permette una crescita reciproca, mia e dei ragazzi. Inoltre, per indole e convinzione personale, non amo alzare la voce e sbraitare tanto per fare. Non ritengo che siano metodi adatti. Dico ciò anche sulla base di esperienze personali, in cui chiunque abbia alzato la voce per insegnarmi, non ha lasciato in me niente di importante. Oltre a ciò, sono fondamentali anche lo studio e la disciplina. Da insegnante quale sono, non posso che ritenere la scuola un mezzo importantissimo per la crescita di qualsiasi ragazzo. Con la società siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Difatti, essi garantiscono ai ragazzi che arrivano da fuori l’Interland aretino dei tutor che li seguono personalmente e garantiscono loro una crescita anche sotto l’aspetto scolastico. Detto ciò, il mio gruppo mi dà a più riprese la dimostrazione della loro massima serietà. Non dobbiamo comunque dimenticarci che sono ragazzi di quattordici anni che sacrificano gran parte della loro vita nel calcio. Il campionato, infatti, prevede trasferte molto lunghe, come Foggia e Benevento, oltre a quattro allenamenti settimanali. Dunque, non posso che complimentarmi con loro».
Quali sono gli obiettivi futuri, tuoi e della squadra? «Parto dalla squadra. Facciamo un campionato estremamente competitivo, che vede la presenza di squadre, Pescara e Benevento in primis, il cui settore giovanile è sicuramente più blasonato. Tuttavia, stiamo facendo una stagione importante, che ci vede al quinto posto, non troppo distanti a livello di gioco a quelle che ci stanno davanti. Inoltre, essendo un campionato giovanile, è molto importante la crescita di questi ragazzi. Dire che i risultati non sono importanti sarebbe da ipocriti, ma è altrettanto vero che non sono l’unica cosa che conta. La formazione e lo sviluppo dei ragazzi è uno degli obiettivi principali. È nel settore giovanile che si gettano le basi di quello che saranno i futuri uomini e calciatori. Il divertimento deve andare di pari passo con la serietà ed il sacrificio, in quanto la peggior cosa, secondo me, è il rimpianto di aver potuto ma non aver voluto. Ed è quello che dico sempre ai miei ragazzi. Dopodiché, indipendentemente da ciò che diventeranno in futuro, questa rappresenterà sempre, nella loro memoria, un’esperienza bella ed importante della loro giovinezza. E spero che porteranno sempre nel cuore anche quello che è stato il loro allenatore. Per quanto riguarda me, non posso che essere estremamente soddisfatto del ruolo che attualmente ricopro, del quale vado molto orgoglioso. Al tempo stesso non mi pongo limiti e aspetto di vedere quello che mi riserverà il futuro».