di Mauro Meschini – Non è la prima volta che le migrazioni verso l’Europa riempiono le prime pagine dei giornali e occupano tanto spazio in varie trasmissioni televisive. Purtroppo abbiamo già visto quello che le immagini adesso ci mostrano e abbiamo già sentito gran parte delle argomentazioni e dei commenti che le accompagnano.
Forse perché sembra ormai tutto così «già visto, già sentito», che è forte il senso di rifiuto per quanto viene affermato e per come questa vera e propria tragedia viene raccontata, anche per i termini che si usano e le considerazioni che si fanno.
Non era più sufficiente il termine «clandestino» per definire un uomo, una donna, un bambino che arrivano in un Paese senza avere un formale permesso, adesso si è andati oltre non solo per le parole usate ma anche per le modalità messe in atto per affrontare la presunta invasione che viene dal mare.
Ecco allora che abbiamo sentito candidamente parlare il Ministro dell’Interno Piantedosi di «carico residuale», facendo riferimento a coloro che, dopo le visite mediche previste per valutare il loro stato di salute, erano stati in un primo momento considerati non così fragili da dover essere immediatamente fatti sbarcare dopo settimane di navigazione.
Un «carico» a cosa fa pensare? A un peso, a un ingombro, in ogni caso a qualcosa che riguarda oggetti, cose… come si può pensare di utilizzarlo in questa situazione aggiungendo poi la parola «residuale», così da rendere ancora più marcato il senso di consapevole svalutazione e negazione che si vuole esplicitare?
Queste affermazioni ci hanno fatto pensare ad altre, più o meno sulla stessa lunghezza d’onda, utilizzate in contesti di guerra quando le azioni militari causano «effetti collaterali» tra le popolazioni civili. A noi sembra più o meno che si metta in atto lo stesso schema per trasformare esseri umani in qualcosa di neutro e quindi sacrificabile e/o comunque gestibile come un qualsiasi oggetto inanimato.
Dovrebbe preoccupare il fatto che un ministro possa pronunciare frasi del genere, ma non è purtroppo il primo, neppure quando nel suo intervento in Parlamento ha catechizzato l’aula riproponendo lo schema secondo il quale si possono accogliere i veri profughi ma non i «migranti economici». Tradotto: ci tocca dare un aiuto a chi scappa da guerre e persecuzioni ma non a chi fugge da fame e miseria, loro possono tranquillamente rimanere a morire nel proprio Paese, anche se spesso tutte queste piaghe si presentano insieme. Anche questa volta si conia una definizione neutra, commerciale, per rendere la realtà più sfumata e indefinita e per teorizzare differenze tra presunti diversi bisogni che sono solo costruzioni artificiali.
Sono state davvero pesanti queste settimane, soprattutto per gli uomini e le donne che si sono trovati a dover fare i conti con chiusure, egoismi, ignoranza che portano Stati e Governi a assumere posizioni e decisioni inumane.
Difficile dire se sarà possibile arrivare al più presto ad affrontare in maniera completamente diversa il fenomeno, sempre presente nella storia dell’umanità, delle migrazioni e degli spostamenti nei diversi territori di singoli e comunità. Occorrerebbe cambiare completamente le priorità e, magari, cambiare il linguaggio potrebbe già essere un passo avanti.
«Le parole sono importanti», diceva urlando Nanni Moretti in Palombella Rossa, si lo sono e la loro scelta meditata può aiutare a cambiare non solo un termine, ma il modo di agire, pensare, vedere se stessi e gli altri. Nel preambolo del Codice degli Assistenti Sociali, viene presentata un’importante modifica usata nell’ultima stesura che crediamo sia un importante passo avanti per la professione, ma non solo.
«Il Codice valorizza esplicitamente le capacità e le risorse di tutti gli individui e delle comunità con cui l’assistente sociale opera. Riflette l’impulso morale di tutta la professione, che si impegna a perseguire la giustizia sociale e a riconoscere la dignità intrinseca di ogni essere umano. Anche per questa ragione, non sono più utilizzati i termini utente/cliente, riferiti a coloro che si rivolgono all’assistente sociale, entrambi sostituiti dal termine persona…».
Ecco, immaginate di inserire nelle frasi che abbiamo citato in precedenza semplicemente questo termine: «persona, persone». Quelle affermazioni sarebbero ancora possibili?
Noi crediamo che sarebbe complicato affermare che a «persone» rimaste in mare in condizioni al limite possa essere impedito di sbarcare. Che «persone» possano essere con sufficienza messe in pericolo a causa di operazioni militari. Che a «persone» in cerca di un futuro migliore si possa sbattere la porta in faccia.
Ecco, forse, perché questo termine non viene usato e si utilizzano, invece, etichette e stereotipi. Dobbiamo decidere se tutto questo sia ancora accettabile!