di Denise Pantuso – A distanza di pochi giorni dal momento in cui sto scrivendo questo articolo mi sono trovata nel supermercato in cui usualmente vado e oltre agli scaffali vuoti trovo un cartellino nei prodotti che scrive “CONSUMO FAMILIARE acquisto massimo giornaliero 4 unità”.
Penso «Sono i primi effetti della guerra?».
Immediatamente mi va il pensiero alle “Giornate della Memoria“, alle “Feste della Liberazione” accompagnate da frasi in cui «Ricordare è un modo affinché l’uomo tenga conto degli orrori della guerra». Seppur l’anelito di tali iniziative sia un NECESSARIO segno simbolico del rifiuto della guerra il vecchio Freud sa bene che il ricordo non calma la pulsione di morte che attraversa l’individuo e le istituzioni che lo governano. Anche in un percorso psicoterapeutico ricordare ed avere consapevolezza non impediscono al dolore di ritornare o all’”errore” di ripetersi. E quindi che fare?
Nel 1931 l’Istituto Internazionale per la Cooperazione Intellettuale composto da studiosi di diverse nazioni, fu convocato da una delle commissioni permanenti della Società delle Nazioni per promuovere un confronto epistolare su temi di universale interesse. Fu convocato in prima battuta Albert Einstein che scelse come argomento di discussione la guerra e come destinatario delle riflessioni Sigmund Freud. Einstein pose a Freud questa domanda: «C’e un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?».
La lettera di risposta di Freud si articola su più punti e in questo articolo mi soffermerò sulla parte che tratta la tendenza umana ad avere una pulsione all’odio e alla distruzione. Nell’essere umano il piacere di aggredire e distruggere, soprattutto se associati ad ideali da raggiungere, è molto forte.
«La componente distruttiva dell’uomo ha come prerogativa il portarlo alla rovina», scrive Freud nel testo e tutto questo è accompagnato dallo spirito di conservazione delle vita. È questo il paradosso umano: spesso la tendenza distruttiva e la conservazione della vita viaggiano a braccetto, sono indissolubili. Così si spiega la guerra Freud. Mentre l’uomo distrugge con i mezzi a disposizione, mentre annienta un popolo o una persona cerca di salvaguardare un ideale, cerca di mantenere in vita e di preservare ciò su cui si costruisce un’identità nazionale. Freud si chiede quindi se ci sia un modo di prevenire la guerra, un modo che permetta alla pulsione di morte e di vita di trovare un punto di intersezione che possa impedire la totale distruzione. Lo psicoanalista giunge a tre riflessioni che suppone possano essere delle soluzioni. La prima è il legame d’amore, la seconda le identificazioni, la terza il superamento della logica “capo-seguaci”.
Pur ammettendone la difficile realizzazione Freud sostiene che affinché tra Stati non ci sia più un legame che porti alla guerra bisognerebbe far sì che il legame sia innanzitutto tra persone, ovvero stabilire relazioni di fiducia tra soggetti. Nel secondo caso le identificazioni sono intese come solidarietà significative tra Stati, che è la prerogativa degli accordi internazionali. La stabilità portata dalla solidarietà decade laddove qualcuno non la rispetti più. Infine il terzo punto è quello di discostare gli Stati dalla logica “capo- seguace” appellandosi ad un terzo ovvero un’istituzione composta da soggetti dotati di “indipendenza nel pensiero, inaccessibili alle intimidazioni e cultrici della verità(…)”.
La logica del legame tra capo e seguaci è ben articolata anche in un altro testo, Psicologia delle masse del fascismo di Willelm Reich, psichiatra e psicoanalista, in cui l’autore sottolinea come gran parte degli uomini desiderano essere governati da un capo, necessitano e desiderano che qualcuno li governi ovvero demandano ad un capo ciò che sia giusto o non giusto fare e si fidano cecamente. Questa dipendenza dal capo genera un arresto delle capacità riflessive umane, capacità che dovrebbero essere tenute in piedi dall’istituzione terza guidata dalla verità. Freud non ha buone speranze sul fatto che la guerra come possibile risoluzione dei conflitti possa cessare in pochi secoli in quanto sottolinea come ci siano differenti tipi di civilizzazione umana che con difficoltà riescono a trovare una solidarietà comune. La civilizzazione, ovvero l’educare i moti pulsionali distruttivi dell’uomo è prerogativa di ogni Stato ma come raggiungere questo obiettivo è diverso da uno Stato all’altro. Ciò rende impossibile per l’autore giungere ad un accordo globale tra Stati o Continenti. Speriamo che almeno su questo Freud si sbagli!!!
Dott.ssa Denise Pantuso
Psicologa e psicoterapeuta individuo, coppia e famiglia
www.denisepantuso.it – tel. 393.4079178