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lunedì, 7 Aprile 2025

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Quando non c’era l’acqua corrente

di Lara Vannini – Aprire un rubinetto e far scorrere l’acqua è diventata un’abitudine non più degna di nota ma, al livello mondiale, come ci raccontano le stime dell’Unicef, due miliardi di persone ancora oggi non hanno accesso all’ acqua potabile. Questo ci mostra come, il problema dell’acqua dal punto di vista planetario, sia una questione tutt’altro che trascurabile, e come di contro la società contemporanea, stia cercando di porre un rimedio allo spreco delle risorse naturali, beni essenziali e spesso sottovalutati. Mentre nei paesi cosiddetti sviluppati si dibatte in maniera sempre più intensa su come abbattere gli sprechi e rendere il mondo più sostenibile, è esistita un’epoca storica non molto lontana in cui il problema è stato decisamente l’opposto e l’acqua era un bene prezioso, da centellinare con la massima cura. Ancora negli Anni ’40 nel 1900 nei comuni montani della nostra penisola, avere l’acqua corrente in casa era un lusso non scontato. Oggi se entrassimo con la fantasia in una casa colonica di tanti anni fa, rimarremmo sbalorditi accorgendoci che non esistevano i rubinetti negli acquai delle cucine, non esistevano tubature per la raccolta delle acque reflue, e che con ogni probabilità era assente anche il bagno come lo intendiamo oggi, nei casi migliori era presente solo il gabinetto spesso come corpo aggettante rispetto all’abitazione primaria.

Le cucine di una volta Nelle cucine generalmente c’era un acquaio in pietra costituito da una grande vasca, che non aveva il rubinetto ma prevedeva un foro di scarico che faceva confluire l’acqua sporca direttamente all’esterno dell’abitazione. Le acque di lavaggio non erano come quelle di oggi, piene di sostanze chimiche e detersivi, e quindi aldilà della metodologia, non erano dannose per l’ambiente. Accanto all’acquaio si trovava sempre una scopina per “spazzare via” lo sporco che restava nella vasca. L’acqua veniva riciclata per più di un’occasione, ad esempio poteva essere usata per lavare le verdure, e successivamente per innaffiare o per fare le pulizie più disparate. L’acqua non potabile poteva essere utilizzata anche per far da mangiare agli animali. Niente veniva sprecato ed esisteva naturalmente quel concetto del “riciclo” a cui oggi tanto aspiriamo. Nelle cucine era molto comune trovare anche oggetti e arredi per lavarsi come un asciugamano, uno specchio o la saponetta. Come abbiamo già detto, non essendoci il bagno con l’acqua corrente, la cucina diventava il fulcro di tutte le attività quotidiane che andavano dall’igiene personale, alla preparazione dei cibi ai lavori domestici soprattutto d’inverno davanti al camino. Non è un caso che un tempo dire “sono in casa” significava essere in cucina perché tutto avveniva in questo ambiente, un luogo in cui lavorare e in cui stare a veglia con amici e parenti.

Il Gabinetto Un tempo non esisteva la stanza da bagno bensì il “gabinetto” ovvero un corpo aggettante rispetto all’abitazione, di piccole dimensioni dove generalmente stava il wc o qualcosa di molto più essenziale e a volte un lavabo a muratura o portatile. Ovviamente questi ambienti come tutto il resto della casa non avevano acqua corrente e quindi per lavarsi venivano usate delle catinelle che venivano riempite di acqua tramite brocche. Spesso nelle camere era solito trovare dei mobiletti da “toilette” composti da una catinella estraibile, un brocca con l’acqua che veniva usata solo all’occorrenza e per i più fortunati uno specchio. In genere questi mobiletti che oggi vengono usati per bellezza nelle antiche case di campagna, avevano anche un porta asciugamano. Era una dotazione che apparteneva a tutti gli effetti al corredo della camera. Soprattutto in caso di malattia, quando doveva far visita il dottore o durante il parto, avere una riserva di acqua subito fruibile era una ricchezza inestimabile.

Il rito del bagno Quando non c’era l’acqua in casa fare il bagno era una cosa tutt’altro che piacevole specialmente in Inverno. I contadini si lavavano in cucina, all’interno di una grande tinozza al canto del focolare. L’acqua veniva scaldata dentro un calderone posto sulla fiamma del focolare oppure dentro una pentola posta sulla cucina economica a legna. L’acqua calda, veniva travasata nella tinozza, ma come è ovvio immaginare, ci volevano molte pentole per riempire una tinozza ed anche molto tempo da dedicare a questo “rituale”. Spesso proprio per la complessità dell’operazione, veniva stabilito un giorno in cui tutti i componenti del nucleo familiare si fermavano dalle comuni incombenze e si dedicavano al rituale del bagno, le finestre venivano schermate e nessuno poteva più entrare in cucina fino alla fine dell’operazione. Lavarsi era molto più semplice d’estate quando, complici le alte temperature, era possibile andare a fare il bagno nei fossi o lavarsi a pezzetti nelle fontane. Soprattutto per i ragazzi era un gran divertimento anche se l’acqua dei fossi o dei torrenti spesso ombreggiati era fredda anche d’estate. C’è un luogo nel comune di Chiusi della Verna chiamato proprio l’Infernaccio, un posto talmente ombreggiato che anche d’estate l’acqua del torrente resta perennemente ghiacciata!

Prender l’acqua con la mezzina D’inverno quando le strade erano ghiacciate, era ancora più difficile andare a prendere l’acqua perché essendo pesante esisteva il concreto rischio di scivolare. Per prendere l’acqua alla fonte ci si dotava di una mezzina, un recipiente in rame con un manico di ottone, un beccuccio e a volte anche un coperchio. Se la mezzina si fosse usurata, veniva riparata dallo stagnino, una figura cardine dei mestieri di una volta. Con ogni probabilità la mezzina veniva chiamata così perché conteneva “metà” di qualche misura antica. Oggi le mezzine vengono usate come oggetti decorativi o porta fiori. La fonte era anche un luogo di ritrovo dove scambiare due parole con gli amici, e dove poteva nascere qualche amore. A volte le ragazze in età da marito, in una sola giornata, facevano anche più di un viaggio a prendere l’acqua nella speranza di poter incontrare il ragazzo di cui “avevano simpatia”.

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