di Matteo Bocca – La montagna è uno di quei luoghi della Terra che da sempre affascina l’uomo per il mistero e l’attrazione che esercita sui turisti sognatori in cerca di avventura, di sudore, di quella fatica necessaria a risalire i ripidi sentieri che conducono a vedere il mondo dall’alto.
Negli ultimi anni, anche con la complicità della pandemia, si è assistito ad un vero e proprio assalto dei turisti ai luoghi di montagna, o almeno della montagna in generale, perché in Casentino come sappiamo si è trattato di un assaltino. Turisti molto spesso fai da te, che hanno bisogno di semplici servizi igienici, o pellegrini in cerca di ospitalità, ma anche turisti dispersi o infortunati bisognosi di soccorsi qualificati e immediati.
Per questo scopo sono stati costruiti i rifugi escursionistici e i bivacchi lungo tutte le dorsali delle Alpi e degli Appennini. Baluardi dell’uomo situati in zone strategiche per garantire agli alpinisti un ultimo luogo caldo prima di accedere ai santuari remoti delle nostre montagne, e un soccorso rapido in caso di necessità. Luoghi edificati dalle comunità montane, dalle istituzioni, dal CAI, ma anche da privati cittadini. Luoghi che hanno dovuto fare i conti con l’avvento del turismo di massa, con la voglia di montagna a tutti i costi, e che talvolta, da presidi per alpinisti ed escursionisti si sono trasformati in hotel stellati o ristoranti da guida Michelin con la complicità di amministratori distratti.
Chiariamo subito: la stragrande maggioranza dei rifugi, anche per effetto di contratti stringenti, adempiono al loro ruolo e sono reali presidi di montagna che lavorano con lo scopo di accogliere gli avventori, contribuendo anche a preservare e divulgare la cultura della montagna e della foresta. Un duro lavoro che il vero Rifugista (il gestore di un rifugio) non fa certo per arricchirsi, ma per il solo amore della montagna. Non tutti questi luoghi però sono identificati dalla legge in modo uguale.
Ci sono rifugi accatastati come rifugi escursionistici, altri come rifugi Alpini, altri come bivacchi e altri come agriturismi nonostante la chiara vocazione da rifugio. Per ogni diversa tipologia di accatastamento c’è una specifica destinazione d’uso che i gestori di queste strutture sono tenuti a rispettare ed è descritta dalle normative redatte a livello regionale. Gli agriturismi ad esempio devono servire alle loro tavole prodotti allevati o coltivati nella propria azienda o comunque locali e i rifugi alpini devono per legge avere un bivacco invernale sempre aperto quando il rifugio è chiuso per offrire un riparo in caso di necessità. In Toscana, la Legge di disciplina delle strutture ricettive extralberghiere n.1 del 10/01/1987, li definisce così: “Sono rifugi escursionistici o rifugi albergo le strutture gestite da enti e associazioni senza scopo di lucro statutariamente operanti nel settore dell’alpinismo e dell’escursionismo idonee ad offrire ospitalità a alpinisti ed escursionisti in zone montane di altitudine non inferiore a 700 mt di quota. Sono altresì assoggettate alla normativa dei rifugi escursionistici le strutture ricettive riservate a coloro che a piedi percorrono itinerari escursionistici anche se poste ad altitudine inferiore ai 700 mt”.
Leggermente diversa è la definizione dei Bivacchi, che sono identificati come “Locali di alta montagna e di difficile accesso con un minimo di attrezzature per il riparo degli alpinisti”. Ci sarebbe già da dire qualcosa sul fatto che questi luoghi siano ancora regolati da una legge di trentacinque anni fa, ma caleremo in questo caso quel famoso velo senza aggettivarlo, perché sono finiti pure gli aggettivi.
C’è però qualche differenza spesso sostanziale tra i rifugi delle Alpi e quelli degli Appennini, e riguarda la considerazione e l’interesse degli amministratori e della popolazione nei confronti di questi luoghi. La prima e più evidente tra queste diversità è l’utilizzo dei rifugi: se nelle Alpi i rifugi sono considerati luoghi destinati anzitutto alla popolazione locale, in Appennino la visione è spesso completamente diversa a seconda delle zone. Facciamo qualche esempio: nei bandi predisposti dai soggetti pubblici o dal CAI per la gestione di un rifugio nelle Alpi, è praticamente scontato che una delle clausole preveda l’apertura obbligatoria del rifugio al pubblico per almeno sei giorni su sette durante il periodo che va dai primi di aprile alla fine di settembre, e non di rado, tra giugno e agosto il rifugio deve rimanere aperto anche sette giorni su sette.
Nei bandi dei rifugi di alcune zone dell’Appennino, non c’è un solo giorno di apertura al pubblico obbligata in tutto l’anno, il che crea non di rado dei veri e propri stravolgimenti nell’utilizzo di queste strutture. Un’altra differenza è la durata dei contratti. Al nord prevedono al massimo i quattro anni canonici (ma spesso anche meno), mentre dalle nostre parti la durata di un affidamento in gestione può arrivare anche a vent’anni, una durata che può dar luogo a conseguenze alle volte disastrose per il rifugio e il servizio che dovrebbe offrire. Altra differenza sostanziale è la possibilità di recesso.
Se negli Appennini i contratti prevedono la possibilità di recedere dal contratto come per un normale appartamento, nelle Alpi il recesso è una clausola pressoché inesistente. Una volta stipulato il contratto di gestione, non esiste alcun diritto di recesso se non a fronte del pagamento di onerose penali. Tutte queste differenze caratterizzano nelle Alpi la necessità di fornire un servizio professionale e continuato dei rifugi a favore della popolazione e del turismo, a differenza degli Appennini dove la considerazione del rifugio da parte delle amministrazioni e della popolazione è spesso completamente diversa.
Questione di culture differenti, diversi modi di intendere l’approccio alla montagna; se nelle Alpi è normale praticare in tutte le stagioni il “Rifugismo” per andare a gustare qualche piatto di malga generando economia, sostenibilità e cultura, in alcune zone degli Appennini il rifugismo, per effetto di contratti che non prevedono apertura al pubblico e altre amenità, acquisisce alle volte una consonante creando un neologismo con le sue naturali declinazioni: il “Rifuggismo”. Il Rifuggista (con due G) non è un gestore di rifugio molto bravo, ma un amministratore che rifugge le normative, non riesce proprio a sopportarle, e mentre elabora e predispone il bando per la gestione di un rifugio, spazia nella sua creatività di gestione della Polis come un qualsiasi Pericle de noartri.
La prima necessità è fare cassa: la cosa più importante non è cosa ci farà il gestore con il rifugio, basta che paghi. Poi andrà selezionato il candidato più adatto, che non deve necessariamente anche essere il migliore come imporrebbe la norma, ma c’è la legge e la selezione tramite gara, questo inutile orpello burocratico che costringe il Rifuggista a mediare continuamente con la sua creatività. Una volta individuato il candidato più adatto (magari direttamente dal parentificio) il più è fatto. Resta da creare l’interpretazione della norma, ma in Italia, è risaputo, abbiamo professionisti dell’interpretazione e creativi che non hanno pari al mondo. Altro che Pericle. Una volta esperita dunque l’inutile trafila burocratica del bando di gara, necessaria per giungere all’apertura delle classiche tre buste che al Rifuggista appare come il gioco delle tre noci o l’imitazione di Mike Bongiorno, il rifugio viene assegnato al candidato più adatto che lo adatterà da par suo alle proprie esigenze, qualsiasi esse siano.
Il risultato in questi casi, è che spesso quello che dovrebbe essere un luogo di ospitalità e divulgazione di cultura della montagna e della foresta viene trasformato in ristoranti o case vacanze, e quei rifugi cessano di adempiere al loro ruolo. Forse è per questo che cambiano in continuazione gestione e hanno canoni di locazione irrisori rispetto ai rifugi delle Alpi. Per il Rifuggista sono incombenze burocratiche da impiegato di primo livello, e per la popolazione diventano cattedrali sempre chiuse nelle foreste o ristoranti per cene di gruppo su prenotazione. Siamo assolutamente certi che le autorità locali competenti nella gestione di queste preziose risorse della foresta selezionino attentamente attraverso i bandi le competenze richieste dalla normativa per la gestione dei rifugi, affidandoli a persone preparate invece che ai soliti parenti e amici?
E siamo altrettanto certi che le stesse autorità monitorino attentamente le attività per accertarsi che non sia stata stravolta la loro destinazione d’uso, verificando che una struttura accatastata come agriturismo o rifugio escursionistico non sia diventata, per dire, una casa vacanze che magari affitta in nero? Ne siamo certi? Si potrebbe semmai suggerire a chi amministra questi luoghi di aiutare i rifugi a promuovere le loro preziose attività pubblicando sui siti istituzionali la lista di queste strutture, la loro ubicazione, le loro caratteristiche, tipicità, i panorami o le foreste incantevoli che li circondano, insomma, con tutto il bisogno di turismo che ha il Casentino, la vogliamo dare una mano a questi rifugi a farsi un po’ di pubblicità?