di Eleonora Boschi – Silvia D’Alessio, casentinese originaria di Bibbiena, laureata all’inizio del nuovo secolo in Scienze Biologiche, all’età di 22 anni, in un’epoca in pieno cambiamento, decise di cogliere l’occasione che poi le ha permesso di volare in alto.
Dal Casentino a Firenze per l’università, poi a New York per un dottorato di ricerca e infine a Milano, dove dal 2004 ha ricoperto diversi ruoli in importanti aziende ospedaliere e farmaceutiche italiane; oggi Silvia D’Alessio, una brillante mente casentinese, ci racconta la sua storia nel mondo della ricerca scientifica.
Partiamo dalle cose facili; ci racconti un po’ di lei e dei suoi studi che per un periodo della sua vita l’hanno portata lontano. «Nel 2001 mi sono laureata in Scienze Biologiche all’Università di Firenze e una volta finito ho iniziato il dottorato nel dipartimento di Oncologia Clinica e Sperimentale del Professor Mario Del Rosso. Durante questo dottorato, che ho terminato nel 2004, facevo ricerca sui tumori alla mammella. Fare ricerca in Italia non è facile, quindi ho svolto il mio dottorato di ricerca negli Stati Uniti presso un laboratorio dove si studiava proprio il tumore alla mammella. A quei tempi fare un’esperienza all’estero era di grande aiuto e arricchiva molto il curriculum. Mi trovavo all’ospedale Bellevue nella sede della New York University, dove ho abitato per un paio d’anni e dove ho collaborato con il Professor Paolo Mignatti che lavorava in quel dipartimento. Sono arrivata a New York qualche mese dopo l’attentato dell’11 Settembre alle torri gemelle e si poteva ancora sentire la polvere nell’aria. L’ospedale in cui lavoravo era quello di riferimento in cui venivano inviati tutti i resti e ritrovamenti dell’attentato».
Perché ha scelto di intraprendere questi studi e perché un dottorato all’estero? «In realtà, io volevo fare architettura perché mi piaceva molto ed ero brava in arte e disegno tecnico. Dopo essermi diplomata al Liceo Scientifico di Poppi decisi quindi di fare il test per entrare alla facoltà di architettura, ma io fui l’unica della mia scuola a non passarlo. Lo presi come un segno del destino. Decisi quindi di cambiare completamente strada; la mia seconda scelta per quell’anno era medicina, ma il test era ormai passato così mi iscrissi a biologia con l’idea di fare poi l’anno successivo il test per la facoltà di medicina e farmi convalidare alcune materie. Alla fine, però, biologia mi piaceva e decisi di continuare e oggi sono contenta di quella scelta. Per quanto riguarda il dottorato all’estero la risposta è semplice: volevo fare ricerca e in Italia questa opportunità non c’era. A quei tempi, avere nel curriculum un’esperienza di ricerca (e non) all’estero era di grande aiuto nei concorsi e dava un punteggio aggiuntivo che permetteva una valutazione migliore per continuare a fare ricerca. Quando ho terminato il dottorato, all’Università di Firenze non c’era neanche un posto per ricercatori e quindi era necessario andare avanti tramite assegni di ricerca, contratti Co.Co.Co, per questo io decisi di venire a Milano dove c’erano molte più opportunità. Da quel momento, dal 2004, io sono a Milano dove ho svolto diversi lavori».
Quali sono le differenze principali che ha riscontrato durante la sua esperienza di ricerca negli Stati Uniti? «Durante la mia permanenza ho notato che gli strumenti di cui disponevo a New York erano molto più avanti rispetto a quelli che avevamo al laboratorio di Firenze dal quale venivo. C’era anche un modo completamente diverso di collaborare con altri gruppi. La comunicazione con il personale medico era molto più ampia e funzionale. Non si trattava solo di un laboratorio di ricerca, si poteva lavorare con dei pezzi che arrivavano direttamente dalla sala operatoria. Inoltre, molti più soldi venivano investiti nella ricerca e questo si vedeva: gli stipendi erano più alti, non c’erano problemi di mantenimento e ai ricercatori veniva dato sia vitto che alloggio. Erano molto più avanti di noi e molte delle cose che so oggi posso dire di averle imparate là».
Quindi di cosa si è occupata nel corso della sua carriera e di cosa si occupa adesso? «Dopo il dottorato ho iniziato a lavorare all’Ospedale San Raffaele di Milano come ricercatrice sempre nell’ambito di tumori alla mammella fino al 2011. Dopo questo incarico, dal 2011 al 2020 ho preso una posizione all’Istituto Clinico Humanitas di Rozzano e ho iniziato a lavorare sulle malattie infiammatorie croniche intestinali con il Professor Silvio Danese che era il capo di quel centro e che ricopriva e ricopre ancora un ruolo molto importante a livello nazionale. Dato che anche in questo caso non si trattava di un posto fisso, ho poi deciso di iniziare a collaborare con aziende farmaceutiche. Oggi, quindi, metto a disposizione delle aziende la mia esperienza offrendo la mia consulenza sulla ricerca su animali per malattie croniche intestinali. Ancora oggi collaboro con il Professor Danese e insieme testiamo farmaci su modelli animali di malattie al colon e all’intestino. Essere stata all’estero ha sicuramente contribuito e ampliato le mie possibilità. Quando lavoravo all’Humanitas ho infatti vinto una borsa di studio promossa da Jerry Scotti e questo mi ha permesso di continuare la mia ricerca. In generale, durante i miei anni di carriera ho vinto e ricevuto vari finanziamenti anche a livello Europeo e sicuramente la mia esperienza all’estero ha contribuito».
Ha lavorato in due ambiti ben diversi fra loro; ce n’è uno che preferisce e che la stimola di più? «Sicuramente quello di adesso. È un ambito dove sono sempre a contatto con medici e con le aziende farmaceutiche che producono farmaci cercando di trovare delle soluzioni attuabili. In questo ambito, la ricerca e i medici collaborano costantemente e lavorare a stretto contatto con i medici mi aiuta a interpretare i risultati ottenuti e a migliorare le formulazioni. L’ambito oncologico è molto diverso da questo e più vario. Adesso sono molti anni che non ci lavoro più quindi non so quali cambiamenti siano avvenuti, ma il contesto in cui lavoro adesso mi dà più soddisfazioni».
Secondo lei, avrebbe avuto lo stesso percorso se fosse rimasta in Casentino? «No, in Casentino la carriera che ho fatto non sarebbe stata possibile, ma neanche a Firenze. Sono stata fortunata ad aver avuto la possibilità di fare ricerca in centri di eccellenza, ma purtroppo in Casentino non vedo un futuro nella ricerca in questo momento. A meno che non si partecipi a concorsi che permettono poi di lavorare in ospedale non ci sono sbocchi per essere assunti come ricercatori. Ciò a cui si può ambire in Casentino sono gli assegni di ricerca, ma molto dipende dalle pubblicazioni, dall’abilità di essere indipendente nell’ambito di ricerca e dalla capacità di ottenere dei finanziamenti».
Sente la mancanza della nostra valle? «No. Mi manca la mia famiglia, i miei genitori, mia sorella e i miei nipoti, il verde del Casentino. Quando torno a Bibbiena c’è sempre quell’aria di casa, ma lo stile di vita casentinese non fa per me. Ho il Casentino nel cuore perché ci ho trascorso la mia infanzia, ma sono felice di dove sono adesso per tutte le opportunità che ho. Qua si è continuamente in progresso e ogni giorno si possono vedere novità ed essere costantemente aggiornati. Non so quanto questo sarebbe possibile in Casentino. Per esempio, in questo momento sto collaborando con una importante azienda farmaceutica italiana per trovare una nuova formulazione di un farmaco anti-infiammatorio che stiamo testando nei ratti. Sono occasioni promettenti che ti fanno sperare di far star meglio la gente in futuro. L’obiettivo è far star bene i pazienti e talvolta le malattie infiammatorie croniche intestinali hanno dei sintomi troppo forti che rendono la qualità della vita compromessa quindi il nostro compito è cercare di trovare delle cure».
Che consiglio darebbe a un giovane Casentinese dalle grandi aspirazioni? «Andare all’estero per fare un’esperienza di almeno un paio danni per capire come è la ricerca. Non solo negli Stati Uniti, anche la Germania, Danimarca, Svezia, Belgio, Francia sono mete valide. Ci sono tanti luoghi dove fare dell’ottima ricerca che sarà d’aiuto. Chi rientra in Italia dopo qualche anno di ricerca fuori è molto avvantaggiato anche nell’ ottenere finanziamenti, dato che ce ne sono di appositi dedicati ai ricercatori italiani che vorrebbero rientrare. Partire per imparare e poi tornare, perché è importante mandare avanti la ricerca in Italia. Nel nostro Paese ci sono rinomati ricercatori che sono riusciti a migliorare molto la qualità di vita dei pazienti e a trovare delle valide cure per tante malattie. Per questo motivo è importante che dopo essere andati all’estero si torni poi in Italia per supportare la ricerca di eccellenza che abbiamo e che si spera un giorno possa arrivare anche in Casentino».
La storia di Silvia D’Alessio è un esempio di determinazione e passione per la ricerca scientifica. Il suo percorso dimostra come il coraggio di cogliere opportunità e affrontare sfide possa portare a grandi risultati, ispirando le nuove generazioni a guardare oltre i confini locali per costruire un futuro migliore.