di Mauro Meschini – Un paese, una piazza, uno striscione, una triste vicenda che ha avuto per protagonista un giovane italiano morto, per motivi ancora tutti da chiarire, in Egitto. Lo striscione giallo in quella piazza urlava: “Verità per Giulio Regeni!”. Quella verità che ancora manca, per gli ostacoli e le reticenze del governo egiziano e per la poca determinazione dimostrata dalle autorità italiane che hanno lasciato aperti troppi canali, soprattutto economici, con un paese in cui ormai da troppo tempo i diritti umani sono sistematicamente violati.
Un altro giovane egiziano, Patrick Zaki, che studia in Italia, da mesi si trova in carcere per accuse assurde e si vede rinviare di volta in volta il processo e la possibilità di dimostrare la sua innocenza.
Era su tutto questo che quello striscione voleva mantenere viva l’attenzione e l’interesse, in un momento in cui troppe cose importanti vengono subito dimenticate. Ma forse il suo colore era troppo acceso, si intonava poco con la nuova pavimentazione di piazza Tanucci a Stia dove Claudia Vigini aveva voluto esporlo perché fosse visto da tutti. Oppure i motivi erano altri, ma non si è avuto il coraggio di farli conoscere, si sono raccolte delle firme e si è chiesto di rimuoverlo.
Il fatto è stato reso noto proprio da Claudia Vigini con un post su Facebook alla fine di ottobre, ci è capitato di leggere i commenti che seguivano e di vedere anche alcune importanti prese di posizione e dichiarazioni di impegno tanto che ci aspettavamo, dopo un paio di giorni, di vedere lo stesso striscione esposto sulla facciata del municipio di Pratovecchio Stia… invece ad oggi, e dopo circa un mese, non è successo niente.
Così abbiamo chiamato Claudia Vigini e le abbiamo proposto di rispondere ad alcune nostre domande.
Per prima cosa volevamo sapere cosa ha significato, e significa, per lei la triste vicenda di Giulio Regeni e come e quando è arrivata l’idea di esporre lo striscione?
«Giulio è un giovane della mia terra, in prossimità del primo anniversario dalla sparizione e dalla morte mi è capitato di passare per il suo paese natale ed ho notato lungo le strade lo striscione giallo, come l’ho visto esposto in tante piazze, su facciate di edifici pubblici e su balconi di singoli cittadini, avevo naturalmente sentito parlare della sua vicenda dai mezzi di informazione, ma non avevo mai veramente prestato ascolto alla sua storia. Ritrovarmi così per caso a passare nei luoghi semplici dove è vissuto e dove vive la sua famiglia, è come se avesse improvvisamente dato un corpo ad un’idea impersonale, così ho cominciato a seguire con maggiore attenzione le notizie che lo riguardavano, interviste e servizi alla tv, articoli sui giornali che in quel periodo non mancavano. Ho scoperto che Giulio aveva frequentato il Collegio del mondo Unito, una scuola che raccoglie giovani da tutto il mondo, una “comunità multiculturale e caratterizzata da una grande diversità. Così facendo favorisce lo sviluppo delle loro abilità interpersonali, prime fra tutte l’empatia e la compassione” (www.uwcard.it), anche gli studi universitari l’avevano portato all’estero, era dunque un esponente di una generazione di giovani che si muovono nel mondo con disinvoltura, che hanno gli strumenti per sentirsi a casa in contesti in cui le differenze rappresentano un valore e non una minaccia. L’esempio di quello che potrebbe essere vivere in un contesto globale, se la globalizzazione rivelasse il suo lato migliore. Un sogno quindi, che si scontra con la realtà e, nella vicenda di Giulio, diventa incubo. Sentendo la narrazione dei fatti, le mille incongruenze della versione ufficiale, i silenzi, i depistaggi, ma anche leggendo i dati forniti da Amnesty e da altre associazioni umanitarie sulle sparizioni forzate in Egitto ho pensato che come cittadina italiana e anche come semplice persona, un gesto, seppur semplice, andava fatto; mi è sembrato che l’esposizione dello striscione “Verità per Giulio Regeni” fosse un segno che racchiudeva in sé l’aspetto umano di solidarietà alla famiglia, la tensione alla ricerca di verità e giustizia, presupposti imprescindibili per la costruzione di un mondo più giusto, e rappresentasse anche una “luce accesa” per tutte le persone ancora oggi vittime di sparizioni e torture, un sassolino nella scarpa, un segno che non fa schiamazzo ma impedisce alle coscienze di addormentarsi».
Poi c’è chi ha considerato questa iniziativa come minimo fastidiosa… ma cosa è successo?
«In realtà non credo che nessuna delle persone del palazzo in cui abito che hanno chiesto la rimozione dello striscione sia contraria alla campagna per Giulio in senso assoluto, piuttosto forse confondono il vivere bene con il quieto vivere… In fondo capita a tutti di sentire, o voler sentire, la maggior parte degli avvenimenti come “lontani”, perché accoglierli nella loro crudezza è fastidioso, occorre anche misurarsi con la paura, con la sensazione di impotenza che queste situazioni ci danno. Forse in chi ha promosso la raccolta di firme in paese le motivazioni possono aver assunto anche altri significati: purtroppo in alcune circostanze lo striscione giallo per Giulio è stato strumentalizzato e usato come simbolo di parte, non riesco sinceramente a capire sulla base di quali elementi, ma è solo un’ipotesi a cui preferisco non dare peso».
Cosa ha pensato quando ha ricevuto la richiesta di togliere lo striscione e perché ha comunque deciso di aderire a questa richiesta?
«Ricordo almeno tre momenti in cui mi era stato chiesto di togliere lo striscione in occasione di feste in piazza, in cui sembrava che il “giallo di Giulio” disturbasse il decoro e in cui, seppur senza arrivare ad uno strappo, mi ero imposta; in diverse occasioni avevo cercato una conciliazione ed ero arrivata a coprirlo parzialmente per rispetto alle tradizioni di paese, con le bandiere che mi veniva chiesto di appenderci sopra. La scorsa estate poi mi era arrivata la voce di una raccolta di firme volta a farlo togliere. A farmi capitolare è stata una telefonata del nuovo amministratore dello stabile che mi chiedeva ufficialmente, da parte di tutti i condomini, di rimuovere lo striscione, forti anche della raccolta firme. Tra l’altro mi è anche stato segnalato il fattore “tempo”: è vero che i condomini in un primo momento avevano dato il benestare all’esposizione dello striscione, ma si intendeva per un tempo limitato (…. il rispetto dei diritti umani a volte sembra avere una scadenza). Ora penso che forse avrei dovuto avere più coraggio e giocare d’anticipo andando magari dall’amministrazione a chiedere sostegno all’iniziativa, ma ogni volta che l’argomento veniva sollevato rimanevo un po’ attonita e senza parole: mi pareva incredibile dover litigare per tenere esposto uno striscione che è segno di una volontà di pacificazione nella costruzione di un mondo più libero e aperto, mi pareva una contraddizione».
Adesso lo striscione dov’è?
«Al momento è a casa mia, in attesa di una ricollocazione, se non a Stia, nella frazione di Papiano alla chiesa di Santa Cristina, dove già a suo tempo ne avevamo esposto un altro usato anche in occasione delle sagre (in tempo pre Covid) che vedono una bella partecipazione di persone provenienti anche da fuori provincia».
Cosa le rimane di questa vicenda? Anche perché dal momento della pubblicazione del post sembra che tutto sia stato rimosso… anche se tra i commenti c’era anche chi si era preso l’impegno di fare qualcosa…
«I social e la comunicazione veloce cui siamo abituati in generale consumano le notizie in fretta, le onde emotive si alzano velocemente ed altrettanto velocemente si perdono sorpassate da altro o semplicemente dal quotidiano; siamo inoltre in un periodo particolare, tutto è un po’ “congelato” dall’emergenza Covid, non abbiamo momenti di aggregazione in cui parlare con gli amici e con coloro che hanno dimostrato sostegno. Comunque la mia intenzione era di dare un po’ di tempo all’amministrazione, che nella persona del Sindaco e di altri esponenti della giunta ha dimostrato sensibilità a quanto successo, e poi bussare alla loro porta…».
Comunque per quanto riguarda il caso Regeni ancora molto c’è da sapere mentre un altro giovane studente, Patrick Zaki, ormai da troppi mesi è trattato da criminale in uno Stato come l’Egitto con cui l’Italia appare, purtroppo, troppo tiepida. La realtà sembra continuare a dire che non possiamo stare a guardare senza fare niente?
«No, non possiamo stare a guardare, io mi sento interpellata come cittadina, come insegnante (perché è questo che faccio nella vita), ma anche semplicemente come persona. Purtroppo questa vicenda ha posto in luce anzitutto a me stessa come alcuni principi che mi sembravano assodati e interiorizzati dai singoli e dalla società civile in realtà non siano così scontati, e richiedano ancora (o di nuovo?) anche nel nostro occidente democratico una attenzione attiva. Dicevo prima che mi sembra incredibile dover litigare per appoggiare il diritto di un cittadino che ha subito violenza e ingiustizia, ma evidentemente c’è ancora bisogno di percorrere questa strada scomoda. A volte, e parlo a partire da me stessa, il conflitto è necessario al confronto, alla trasparenza ed infine al dialogo per il raggiungimento di obiettivi condivisi, ed il rispetto dei diritti umani in ogni luogo di questo nostro mondo iper-connesso non può non essere il fondamento imprescindibile di ogni altro diritto. Nel post che ho scritto sui social ho forse enfatizzato la dimensione simbolica della lotta per il raggiungimento della verità per Giulio, come se anche io avessi in fondo abdicato alla possibilità di avere davvero giustizia; la famiglia di Giulio, con cui sono entrata in contatto proprio grazie al tam tam sui social, mi ha ricordato giustamente che invece non si tratta solo di un fatto simbolico, come simboliche non sono le torture, le sparizioni, i morti che il regime in Egitto sta continuando a seminare. Anche Patrick Zaki, su cui l’attenzione per fortuna è focalizzata in questo momento, non è solo un simbolo, il suo essere recluso ha un aspetto molto reale; è il passo che mi sono trovata a fare all’inizio di questa mia piccola storia: dalle foto sui giornali, che appaiono sempre in “un altro luogo e in un altro tempo”, ai luoghi quotidiani, reali. Ci sono diversi livelli su cui dobbiamo operare: a partire da noi stessi abbiamo bisogno di risvegliare empatia, consapevolezza dei legami che ci uniscono, visione complessa della realtà, e dare un corpo alle informazioni che ci bombardano ogni giorno e ci rendono assuefatti. Le istituzioni hanno in tutto questo una grande responsabilità che non possono delegare, ma al tempo stesso credo che gli obiettivi verso cui le istituzioni si muovono derivino proprio dalle priorità indicate da noi società civile».
(tratto da CASENTINO2000 | n. 325 | Dicembre 2020)