di Denise Pantuso – Succede molto spesso anche nelle conversazioni tra persone di dire «Succede sempre a me», «Mi succede sempre la stessa cosa!». Che sia una situazione lavorativa, relazionale o sociale c’è in ciascun essere umano la tendenza a trovarsi nelle stesse circostanze di vita.
Sigmund Freud chiama questa esperienza di ripetizione coazione a ripetere. Lo psicoanalista introduce il concetto nel 1920 all’interno del testo Al di là del principio di piacere. Sono tre le condizioni psichiche che Freud osserva per arrivare al concetto di coazione a ripetere. La prima è l’osservazione del gioco del rocchetto in un bambino. Un bambino ha un rocchetto che tira e riprende, tira e riprende in una continua ripetizione. Perché il bambino fa questo gioco di allontanare e riavvicinare il rocchetto in maniera continuativa?
Ogni mamma avrà visto almeno una volta nella vita il proprio bambino ripetere uno stesso gesto per più volte nel tempo. La seconda scena è l’analisi dei sogni nei soldati tornati dalla guerra. Freud incontra nei sogni dei soldati le scene di guerra, scene di dolore, frustranti e traumatiche. Questo punto mette in crisi la sua teorizzazione del sogno come realizzazione di desiderio e apre una domanda su come mai un soggetto piuttosto che allontanarsi dai ricordi e stimoli dolorosi se ne avvicina.
Infine il concetto di transfert è un altro elemento peculiare per lo psicoanalista. Il transfert, ovvero quei sentimenti che ogni paziente vive nei confronti del proprio terapeuta, ad un certo punto diventa negativo ovvero frustrante per il paziente stesso generando una certa ostilità all’interno del setting. Freud si chiede perché un soggetto finisca per provare sentimenti spiacevoli verso il proprio terapeuta. Questi tre elementi portano lo psicoanalista a supporre che nell’essere umano c’è una strutturale necessità di ripetere lo spiacevole, di ritrovarsi continuamente nella scena traumatica.
Jaques Lacan renderà la coazione a ripetere, ovvero la ripetizione, un elemento strutturale dell’apparato psichico e la considererà uno dei quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Quel che il concetto di ripetizione pone in assoluto primo piano è l’ostinazione dell’essere umano nel rimettere continuamente in gioco le stesse dinamiche, anche quelle (soprattutto quelle, per essere precisi) che determinano conseguenze problematiche per il soggetto.
Ad esempio, nell’amore e nei rapporti significativi le persone ripetono, ritualizzano e fanno rivivere situazioni dolorose e stati affettivi che hanno caratterizzato i loro primi anni di vita. L’esperienza di ciò che in passato ha procurato dispiacere, non è servita a nulla. Tale attività viene nonostante tutto ripetuta: una coazione costringe a farlo. Qualcosa che si ri-presenta, seppur in momenti, in luoghi e in circostanze diverse. Un meccanismo che insiste, un invisibile suggeritore che continua a dettare le stesse regole seppur con attori nuovi. Un intreccio che si svolge con le stesse svolte e lo stesso finale.
Relazioni che si concludono allo stesso modo, stesso modo di interpretare i comportamenti degli altri, stessi attriti nei luoghi di lavoro. Questo eterno ritorno dell’uguale non ci deve stupire molto se si tratta di un comportamento attivo del soggetto, se in quel comportamento riconosciamo una peculiarità permanente del suo carattere che non può non ripetersi.
La ripetizione ha a che fare con ciò che perdura e insiste contro ogni ragione e volontà, è il cuore di ogni sintomo, di ogni sofferenza. È una cupa soddisfazione che spinge a varcare ogni limite. È la pulsione che spinge oltre… fino alla propria distruzione e proprio per tale ragione necessita di una cura.
Dott.ssa Denise Pantuso Psicologa e psicoterapeuta individuo, coppia e famiglia www.denisepantuso.it – tel. 393.4079178