di Gemma Bui – È stato recentemente promosso un referendum consultivo sull’organizzazione ad aree vaste della sanità toscana. L’iniziativa segue la scia di un precedente tentativo, risalente al 2015, quando in Toscana furono raccolte quasi 60.000 firme, ma poi il referendum non si tenne perché il Consiglio Regionale approvò in tempi brevissimi variazioni alle norme.
Un’approfondita relazione illustrativa sul referendum, stilata dal Comitato Referendario, evidenzia le lacune della riforma, emerse nell’arco degli ultimi 10 anni: tra le altre, l’assenza di relazione tra macro-organizzazione, ottimizzazione delle spese e miglioramento dei servizi, la riduzione del finanziamento al SSR tramite i tagli al personale, la riduzione dei posti letto, i costi sociali sempre più gravosi per gli utenti, il fenomeno delle liste bloccate, l’obsolescenza dei macchinari. Su tutti questi aspetti ha indagato anche la Corte dei Conti, invitando la Regione Toscana a intervenire sulle mancanze. A tal proposito abbiamo intervistato il dott. Giuseppe Ricci, uno dei tre promotori del referendum e Portavoce del Comitato Referendario, nonché ex Direttore della ASL di Arezzo.
La storia di questo referendum è piuttosto lunga e travagliata… «Dieci anni fa ci fu una sommossa di popolo contro la Legge che accorpava le ASL da 12 a 3 per ragioni prettamente economiche, che fondamentalmente fu imposta e approvata nell’arco di pochissime settimane. All’epoca preparammo il referendum abrogativo, dicendo che non si potevano fare riforme in così poco tempo, ma che occorreva condividerle, renderle partecipate. Raccogliemmo 55.000 firme. Poi, come spesso succede in questa stra-democrazia che abbiamo nel nostro Paese, con la Legge n.84/2015 hanno di fatto impedito che si potesse fare il referendum, sancendo sulla carta la morte della democrazia partecipata, almeno in Toscana. Da allora nessuno ha più provato a fare referendum abrogativi, sapendo che la politica toscana riesce a fare cose di questo genere. Ma perché un referendum abrogativo? Perché a differenza del consultivo, una volta approvato il quesito da parte del Collegio di Garanzia, ci sarà solo l’obbligo di raccolta di 30.000 firme, senza più nessun altro impedimento.
Il Consiglio Regionale a quel punto dovrà per forza far espletare il referendum. Non servirà quorum e i cittadini toscani avranno la possibilità di dire espressamente cosa ne pensano, e saranno ben felici di dire il loro sì affinché la Legge di accorpamento delle ASL venga superata; in caso contrario, prenderemo atto del fallimento, ma siamo convintissimi che il referendum avrà comunque un’alta percentuale di adesioni. Fatto il referendum, toccherà alla Regione: sarà chiamata a decidere cosa dire ai cittadini che avranno votato. Ci sono tre possibilità: la Regione potrà dire “non ci interessa, anche se la gente ha votato meglio di così non si può fare, quindi le ASL sono e rimarranno 3”; oppure, “prendiamo atto di aver fatto una riforma che non piace a nessuno, togliamo le vecchie ASL provinciali”, e infine, l’opzione preferibile, “rivedremo gli ambiti territoriali». L’importante è capire che il modello delle tre “aslone” in questi anni ha soltanto creato disservizi e malessere».
Quali sarebbero i “pro” di una nuova riforma, alla luce dei “contro” emersi con quella attuale? «Che il sistema stia – tra l’altro – costando moltissimo, lo si constata dal fatto che il Presidente Giani è stato costretto a rimettere mano nelle tasche dei toscani. Se questa riforma delle tre ASL avesse consentito chissà quali risparmi, non ci sarebbe stato bisogno di tirare fuori 3-400 milioni di euro in più da parte dei cittadini. Evidentemente il fenomeno è sfuggito di mano, questo modello sta costando per il mantenimento della tremenda burocrazia presente, ma anche per tutta la sovrastruttura di analisi e controllo, completamente fuori misura. La burocrazia costa, noi lo dicemmo anche in tempi non sospetti.
Non c’è più partecipazione, condivisione, il far parte di un sistema: giungeremo a un totale senso dell’abbandono. E quando subentra l’abbandono, si creano le condizioni per stimolare costi aggiuntivi, per far sì che la gente produca, produca, produca. Cosa produce poi non si sa. È vero che abbiamo le statistiche, secondo le quali siamo la sanità migliore in Italia; ma dietro le statistiche c’è sempre la persona. Tu a fini numerici puoi aver avuto prestazioni positive, ma se mandi un cittadino dal Casentino fin nel Grossetano per una prestazione, non ti potrai rendere conto dei costi indiretti della cosa. Idem se per continuare a far funzionare questo sistema sei costretto a fare riunioni di personale, che così viene costantemente sviato dalle mansioni ordinarie. Questo vale anche per i ricoveri, non solo per le prestazioni diagnostiche e specialistiche; il problema l’abbiamo dimostrato con i fatti, l’ha certificato la stessa Corte dei Conti. Abbiamo creato una struttura talmente complicata e complessa che anche la stesura dei conti economici di esercizio viene sempre fatta con estremo ritardo. C’è ancora bisogno di trattenere la quota di riserva in abito regionale e attendere l’esito di fine anno delle singole ASL per poter andare a ripianare la situazione riscontrata. Si creano condizioni per cui si debba quindi ricorrere in Tesoreria o contrarre mutui, che costano e costeranno sempre nel conto di esercizio.
Questo è il dramma constatato negli ultimi dieci anni. Nessuno è venuto a raccontare ciò che ha detto la Corte dei Conti, suppongo che di fatto pochi ne fossero a conoscenza. La Corte è stata tranchant: non si possono togliere 35 milioni di euro dalla disponibilità della rete sanitaria, non si possono mettere mutui a carico delle ASL, bensì si deve ricorrere ad un’altra partita di giro, ad un’altra imputazione di bilancio. Alla Corte non interessa come vengano coperti i margini, ma certamente non lo si deve fare con il fondo sanitario indistinto. Il problema è questa elefantiaca condizione di una certa politica del “dire per non dire”: io sono per il pubblico, ma intanto privatizzo. Sotto questo aspetto è molto più apprezzabile la Lombardia, che ammette espressamente di mandare avanti il privato, e i cittadini scelgono. Qui invece ci raccontano bugie, costringendoci di fatto, in ultima istanza, ad andare per via privata. Circa il 30% dei toscani (200.000 – n.d.r) non riesce a effettuare la prestazione, non avendo le risorse: sfido chiunque dal Casentino ad andare in Valdichiana, specie se magari è un anziano senza familiari vicino; è chiaro che alla fine rinuncerà, pagando a quel punto direttamente una struttura privata. Adesso poi è tutto così complicato: è stata inserita la novità dell’”indice di cattura”.
La Corte dei Conti ci dice: “mi stai dando solo alcuni dati, il TAT (tempo di attesa derivante dall’algoritmo – n.d.r.) non mi serve, io voglio sapere quanti cittadini toscani richiedono una prenotazione per una prestazione”. Il Direttore Generale della Sanità ha dichiarato davanti alla Corte che “non si riesce a intercettarle tutte”. Quando entri nel meccanismo degli algoritmi, poi è difficile modificarli. Ma il sistema è furbo: blocca l’agenda – pratica peraltro illegittima – invece di far comunque registrare una richiesta di prenotazione, così da non rendere evidente che magari i tempi di attesa reali sono di 7,8,9 mesi. La soluzione più semplice sarebbe quella di far registrare le richieste di prestazione direttamente al medico di base. Invece l’utente viene mandato in giro, rimpallato al CUP, e di conseguenza abbandonato a sé stesso. Nell’algoritmo, ricordiamoci, siamo solo numeri. Per questo abbiamo deciso di tornare a riproporre la nostra battaglia, perché la direzione in cui stiamo andando è sempre più peggiorativa».
I cittadini come potranno avvicinarsi e, soprattutto, sottoscrivere il referendum? «La prima fase della raccolta firme è stata chiusa l’11 Marzo (su 1.500 necessarie, ne abbiamo presentate circa 3.000). Adesso restiamo nel mese di attesa, in cui il Collegio di Garanzia dovrà dirci se il quesito sia ammissibile o meno. Eventualmente, una volta ammesso, avremo sei mesi per lanciare la raccolta delle 30.000 firme, con l’ultimo sforzo della campagna referendaria vera e propria».