di Gemma Bui – Oggi sono molto arrabbiata. E forse la rabbia, me ne rendo conto, non è il sentimento migliore con cui approcciarmi a scrivere l’articolo che avrei dovuto scrivere, un focus sul “concetto di pace in tempo di guerra, sperando nell’analisi interiore e collettiva che una ricorrenza religiosa – ossia il Natale – può aiutarci a sviluppare”. Sul tema è ovviamente impossibile, in questo determinato momento storico, non pensare a ciò che sta succedendo nella Striscia di Gaza – non da ieri, non da un mese a questa parte, ma da 75 anni, anche se nessuno pareva essersene accorto prima – tra il totalitarismo travestito da democrazia di Israele e gli inconcepibili atti terroristici dell’organizzazione palestinese Hamas. Una guerra di cui tutti e tutte – con maggior o minor cognizione di causa, a seconda di soggetti e contesti – abbiamo parlato o sentito parlare. Ciononostante, la guerra “tradizionalmente” intesa, quella fatta di sangue, fame e annullamento umano, noi abbiamo il privilegio di non averla mai vissuta.
La guerra è un sistema complesso, forse il più complesso tra tutti: racchiude in sé in primis fattori economici e politici, ma anche etnici, territoriali, sociali, religiosi. Possiamo dunque solo constatare quanto sia sconfinata l’inumanità del fenomeno in sé, del “pensiero” – termine improprio – di chi decide di privare le persone di tutte quelle componenti e di quegli aspetti che rendono una vita dignitosa, di tutto ciò che fino a quel momento esse avevano sempre, e con diritto, avuto. Cercare di comprendere la guerra, per il resto, costituisce un tentativo estremamente pluralistico e complesso che – per un sincero sentimento di rispetto e onestà intellettuale verso chi invece essa, purtroppo, la conosce bene – credo sia giusto lasciare ad altre persone. Del resto, col tempo ho capito che non sempre siamo in grado di esprimerci, di farlo bene e su qualunque argomento. È una sorta di moto di autocoscienza, di cui a volte ci dimentichiamo, che ci porta spesso alla convinzione di doverci sentire in difetto se non abbiamo sempre un’opinione su tutto.
Ma io, se e quando opino, e a maggior ragione scrivo, credo di essere tenuta a farlo innanzitutto con consapevolezza, e quindi per forza di cose su ciò che conosco, che sperimento, che subisco. Dev’essere sempre la mia versione, la mia interpretazione, la mia storia. E anche, come dicevo, il mio privilegio. Quello di donna ventisettenne, di famiglia borghese, universitaria fuoricorso ma con un lavoro a grandi linee stabile, bianca, europea e bisessuale cisgender, estremamente incerta sul proprio futuro ancor prima che su quello della nostra umanità. Una donna che, appunto, sa bene di non poter parlare con piena cognizione di causa e ampiezza di analisi di guerra e di pace, perché ha sempre avuto – e soprattutto, non ha mai avuto paura di non avere (più) – una casa, un lavoro, una famiglia a supporto, l’alimentazione garantita, il diritto di studiare, di esprimersi, di amare, di esistere. E che quindi può parlare esclusivamente di come può percepire, declinare e interpretare i concetti di guerra e di pace all’interno della sua piccola esistenza, della sua realtà protetta. Credo che il modo più diretto, onesto ed efficace per farlo sia tracciare un parallelismo ben preciso, che non sa parlare della paura di una guerra etimologicamente intesa come tale, ma che riconosce ormai l’incombenza dei rischi del proprio quotidiano. Perché forse è solo partendo da qui che posso trovare le risposte che cerco e che devo dare a me stessa. All’inizio di questo articolo vi ho detto di essere arrabbiata, ma non vi ho ancora spiegato perché.
Oggi, mentre scrivo, è Domenica 19 Novembre 2023. Oggi, sono passate poco più di 24 ore dal ritrovamento del corpo di Giulia Cecchettin, di cui tutte e tutti conosciamo la storia. In questi giorni non ho quasi pensato ad altro, e so che sono in tante e tanti a sentirsi come me. È la storia di un genocidio quotidiano, perché così si può ed è giusto che lo si chiami (dal greco γένος / ghénos – “genere” e dal latino caedo – “uccidere”). È la storia di un omicidio di Stato, quello Stato che solo nell’ultimo anno ha visto – perché è impossibile non vederle – 105 donne vittime, ma senza veramente guardarle. È la storia del femminicidio, che potremmo definire come l’archetipo esemplificativo della guerra civile che ogni donna oggi subisce nel quotidiano; una guerra, stavolta sì, che possiamo davvero dire di stare vivendo, e che quindi possiamo raccontare. È solo una delle tante che la nostra dimensione sociale ha generato e continua a generare. La loro causa genetica è quella che io chiamo “logica dello scontro”: un sorta di dogma sociale “di default” che trasforma il male in regola, in standard di partenza, e che fa apparire il bene solo come una pallida eccezione, qualcosa di cui vantarsi quando capita; che si interiorizza e si introietta in tutti e tutte noi, e asseconda tutto ciò che ci circonda: informazione, social networks, scuola, famiglia, relazioni.
È la dimensione giornaliera della “nostra” guerra, fatta di sopravvivenza, performatività e competizione, che ci porta a pensare che sia effettivamente questo il giusto e naturale andamento delle cose: che serva sempre una reazione a presupporre un’azione, che una risoluzione non possa esistere se non in virtù e forza di una pregressa tensione, che le maggioranze traggano la loro legittimazione ad esistere proprio dalle minoranze, che se c’è il carnefice allora prima dev’esserci per forza la vittima, che se vuoi sopravvivere o uccidi o verrai ucciso. Una dinamica del conflitto totalmente antipode al naturale ordine della realtà, una distorsione nel percorso evolutivo umano, a cui noi scegliamo di “reagire” coi più ciechi tra gli atteggiamenti, quelli dell’indifferenza e dell’immobilismo: perché non abbiamo memoria storica, né di conseguenza una visione di progresso da declinare al futuro. Perché siamo troppo frustrati dal fatto che i cambiamenti concreti implichino tempo e sforzi. Semmai ci penseremo (leggi: ci penserà qualcun altro) domani, ci diciamo. A volte però succedono cose che in un attimo ti fanno esacerbare convinzioni che probabilmente ci avevi messo anni a maturare. Il femminicidio di Giulia Cecchettin è una di queste. Io ho sempre pensato che la violenza generi violenza, e che questo paradigma lo si possa decostruire soltanto tramite sentimenti pacifici e positivi. Ma davvero può bastare?
Ora come ora non lo so, non riesco a capirlo. So che gli obiettivi pacifici sono, certamente, quelli a cui dobbiamo ambire e per cui dobbiamo lottare. Ma se si parla di “lotta”, penso appunto che lo si faccia con cognizione di causa. Credo che le dicotomie esistenti all’interno di questa umanità debbano e possano essere sanate solo con cambiamenti radicali, quindi rivoluzioni. Quelle stesse rivoluzioni che necessitano sempre – e spesso durante il loro corso mietono – vittime. E allora, sono portata a pensare, forse è vero che per il raggiungimento di una pace si deve sempre presupporre una qualche forma di guerra. Che finché ci sarà la necessità di continuare a difendersi da qualcuno o qualcosa, non riusciremo a pensare che con una logica di attacco. È un immaginario che sinceramente non mi fa nutrire alcuna fiducia o speranza verso un’anche solo labile parvenza di umanità; che crea, dentro di me, un bias, una scissione interna, un conflitto di coscienza che razionalmente non sempre mi sento in grado di riuscire a gestire. Due realtà, la lotta e la pace; una sola esigenza, la lotta per la pace. Istanze parimenti prioritarie, in relazione alle quali non so come sentirmi né come comportarmi. Come faccio a sapere qual è quella giusta? E quindi, dopo questa infinita, disordinata e contorta riflessione, concretamente che risposte ho da dare? Certo è che il mondo non lo si può cambiare insieme, quindi come pensiamo di poterci riuscire da soli/e?
Forse cominciando col cercare di cambiare il nostro micro-mondo, inteso come area di nostra competenza e interesse umano, quella su cui possiamo ancora avere certi spazi di manovra. Farlo mantenendo comunque una tendenza, un’attenzione e quantomeno un intento di immedesimazione verso l’altro, con la sua vita, le sue aspirazioni, i suoi problemi. Cercando canali di comunicazione che magari, col tempo, potrebbero rendere sistemici cambiamenti oggi soltanto episodici. Iniziando davvero a comunicare, a ingenerare un cambiamento di narrazione e di dinamica, partendo dal basso. Non pensando, aprioristicamente, che il confronto debba sempre leggersi e impostarsi nell’ottica dello scontro. Non avendo paura di esso. Raccogliendo i cocci dei nostri valori etici e di fede. Temo che valgano ben poco a redimerci al giorno d’oggi, con i mutamenti che il mondo e l’umanità hanno scelto e subìto.
Ma forse c’è qualcosa che si può ancora salvare, qualcosa che ci faccia scoprire che alla fin fine “come la penso e mi sento io non è molto diverso da come la pensi e ti senti tu”. Rifiutando di accettare un sistema in cui non abbiamo le risposte che vorremmo, e quelle che abbiamo non bastano a convincerci; leggi – umane, prima ancora che giuridiche – alle quali non riusciamo a credere, e non ancora quelle in cui invece vorremmo credere davvero. Smettendo di sperare sempre che “finirà diversamente”, e che qualcuno o qualcosa ci salverà dall’alto. È finito il tempo della speranza, è iniziato quello della responsabilità: siamo noi che dobbiamo cambiare. Evitando di pensare alla pace come un concetto sempre declinato al futuro, perché così facendo non matureremo mai una coscienza del domani. Non credendo sempre, passivamente, che tutto debba per forza andare come è sempre andato.
Perché è palese che nessuno/a di noi stia davvero bene. Ma, è altrettanto ovvio, non possiamo fare tutto da soli/e: in una pacificazione si può sperare solo qualora intervengano anche un’educazione mirata, una cultura collettiva e un assetto legislativo organico, che sappiano davvero guidarci e starci accanto. E, infine, serve anche essere consapevoli del fatto che tutto questo, comunque, potrebbe non bastare. Perché forse la guerra, come esseri umani, ormai la portiamo dentro, forse l’abbiamo sempre fatto e sempre continueremo a farlo.
Io sono una ragazza, una donna di 27 anni. Queste, oggi, sono le mie paure, la mia rabbia, le mie riflessioni e le mie speranze. E questo, oggi, è tutto e solo quello che, effettivamente, mi viene da pensare che si possa ancora provare a fare.